Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 28 di 94
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A Sambuca di Sicilia è stato restituito al suo antico splendore l’ex Convento dei Cappuccini. Infatti, volge al termine l’intervento di recupero finanziato dall’assessorato alle infrastrutture e da destinare a struttura riabilitativa ed a favore di soggetti affetti da disturbo autistico. Il progetto è stato redatto su richiesta dell’associazione Oasi Cana e attuato dal Comune di Sambuca. Il sindaco Leo Ciaccio commenta: “Complimenti ai progettisti, all’impresa, agli uffici comunali e all’associazione Oasi Cana che con la loro professionalità permetteranno al nostro territorio di godere di servizi importantissimi in un luogo speciale.”

Costrette a scoprirsi forti, temprate, combattive dentro le proprie case, dentro le proprie vite, in un lockdown che toglie tanto ma restituisce una consapevolezza di sé che non sapevano neanche di avere.

Su La7d ieri sera in prima serata, nel giorno della festa della donna, “TUTTE A CASA” un documentario che scopre i nervi, che racconta storie di donne, raccontate dalle donne, senza filtri, senza trucco e senza inganno.
Da nord a sud, sono tante le protagoniste che hanno aperto le finestre sulla loro quotidianità e l’hanno raccontata senza sconti, senza dover apparire forti a tutti i costi, senza rinunciare alle proprie paure, che diventano certezze in un tempo in cui nulla è certo se non la voglia di attraversare il buio per arrivare a riacciuffare ciò che era prima.

La nuova vita in tempo di pandemia, che trova nel contatto “online” la forma più prossima agli affetti che cambiano rotta: da “se vuoi Bene abbraccia i tuoi cari, stai vicino ai tuoi anziani” a “sei vuoi bene stai lontano, non andare da loro, non abbracciarli”. 

E così nonni e nipoti si guardano in video, la scuola è a distanza, ci si laurea davanti ad uno schermo.

I compleanni online, le lezioni online, nonni e nipoti, online.

La vita stretta e asfissiante dentro convivenze che nascondono violenze, il coraggio di scappare, di andare altrove, proprio nel momento peggiore possibile, proprio mentre “la casa” dovrebbe proteggere.

Le donne del documentario sono schiette autentiche: momenti di relax e di disperazione. 
I viaggi che si trasformano in passi, la vita troppo organizzata, piena di impegni che sta stretta, che soffoca.

Sempre alla ricerca di un proprio spazio, dentro convivenze che non erano più già da tempo e che tornano mentre ci si domanda se ci si riesce a sopportare ancora. E ci si scopre fieri di un genitore, o del proprio figlio.

Immagini non ritoccate, messe insieme con la grazie della normalità in un momento di completa assenza di normalità.

Le nonne a cui mancano nipoti e passeggiate in quantità variabili.
Le finestre che sono pezzi di cielo, e la visione di parti di cose, di porzioni del mondo.

La ricerca di uno spazio proprio che diventa spazio per la sopravvivenza, i caffè a tutte le ore, la pulizia a tutte le ore.
Ciò che era un impegno, diventa un diversivo.
Insofferenza che il fa il paio con nostalgia. 

E poi gli hobbies improvvisati, le prove di sopravvivenza.

Come colonna sonora il battito del cuore, che accelera e rallenta, che va e poi si ferma. 

La paura di morire, i problemi quotidiani, i giorni e le notti che si alternano e poi tutto uguale a se stesso.

Belli i racconti delle donne che si tagliano i capelli per sentirsi libere, e poi quelli di chi racconta di come avere o non avere un lavoro stabile faccia la differenza, eccome.

Le manie, le ossessioni.
Le mascherine, il lavaggio delle mani, il non toccare, il non toccarti, il non toccarsi. 

Il virus, le crisi di panico notturne, l’ansia e lo stress.

Le donne che hanno paura ma senza paura raccolgono video in cui spiegano tutto ciò che manca.
Come la voglia di studiare, la speranza nel futuro.

E poi i racconti delle donne in prima linea, negli ospedali e nelle ambulanze.

“Andrà tutto bene, è una presa in giro” – Dice un medico della terapia intensiva.
La realtà è più cruda della speranza. 

La sveglia all’alba, e quel fare “a casa” tutto quello che non si può fare più.  

La tinta a casa. 

La ceretta a casa. 

A casa. 

Tutto a casa. 

Il gesto di mettere su il rossetto per ritrovare il contatto con quel che è stato.  

I nuovi nati.

Le vite affacciate al tempo di pandemia. 

Bello il momento in cui le bambine fanno abbracciare i loro pupazzi: “voi potete, non avete il coronavirus“.

Il lavoro precario di chi lavora nel mondo dello spettacolo.
Le scuole chiuse e quel tempo rubato ai bambini e ai ragazzi: chi glielo restituirà? 

Parole accorate, pronunciate da donne che si mettono a nudo, che condividono il loro mondo e le loro angosce.

E poi gli stati d’animo, tutti. 

Rispondere male, arrabbiarsi, sfogarsi e poi avere sensi di colpa.  

I nonni dalla finestra. 

I pensieri lasciati nell‘ascensore e le lacrime di dispiacere. 

Le file ai supermercati. 

Le cassiere e il loro stress giorno dopo giorno in tempo di pandemia. 

Il volontariato e le buste su per i balconi. 

Il racconto crudo di una ragazza che ha perso il papà che è andato via il giorno del suo compleanno e non è più tornato. 

La natura che si riprende i suoi spazi. 

I gavettoni sui terrazzi. 

Bravissime le donne del documentario a raccontare il concetto di libertà e resistenza. 

E poi il ritorno alla normalità piano piano. Il caffè di nuovo al bar ma nel bicchiere di plastica, le amiche ritrovate ma ad un metro di distanza, le lezioni a scuola, il sorriso che torna dopo 50 giorni di chiusura, ma che questo bel prodotto filmico ha raccontato a braccia e cuore spalancato. 

Donne del mondo dello spettacolo, chiuse come tutte le altre, hanno accettato di raccontare, di raccontarsi.
Tutto poi lavorato da montatrici, autrici, registe, uffici stampa, producer, che hanno messo a punto un lavoro che diventa simbolo del mondo femminile che non molla e sa sempre come farcela.

Emozionante, forte, capace di tirar fuori da ognuno il ricordo di ciò che per sopravvivenza avevamo solo archiviato. 

Plauso alla ideatrice, regista e montatrice del documentario, Cristina D’Eredità, coadiuvata da Nina Baratta e Eleonora Marino.
Un lavoro collettivo, firmato da donne che hanno pagato il prezzo più alto della pandemia: le donne dello spettacolo e della cultura.

Eccoci qui, a scansare gli auguri per la Festa della Donna perché ormai va di moda così.
La donna si festeggia tutto l’anno” – sentiamo dire ormai da tempo.

Dobbiamo scansare gli auguri.
Come se la forza di indignarsi svanisse davanti ad una mimosa, o ad un gesto carino che ci arriva dal mondo maschile.
Ho sempre detestato lo stereotipo di genere, la distinzione tra i sostantivi al maschile e quelli al femminile.
Dottore, avvocato, direttore, professore dovrebbero avere la stessa neutralità di giornalista, astronauta, farmacista. 

Siamo, esistiamo e siamo capaci di svolgere una mansione a prescindere dal genere, e a volte la spiccata bravura delle donne in alcune mansioni viene ignorata, perché ancora c’è questo modo di concepire il mondo con la convinzione che la donna generatrice di vita sia delicata ed emotiva, e non scaltra e cocciuta.

E poi c’è la violenza sulla donna che sceglie, che si ribella.
Ci sono gli appellativi che suonano come offese e diventano ferite profonde. 
E’ vero, non abbiamo ancora molto da festeggiare, perché si festeggia una ricorrenza quando un traguardo lo si è raggiunto, ma qui siamo ancora ben lontani dall’affermare di poter festeggiare una creatura che chiede solo di essere rispettata e di poter trovare il proprio posto nel mondo, e che quel ruolo venga riconosciuto in base alle capacità di ognuno e non rinchiuso in un codice fatto di esteriorità, di pregiudizio e di raccomandazioni.

E’ vero: non servono fiori, cioccolatini e frasi sdolcinate.
Serve una presa di coscienza: perché studiamo come gli uomini, abbiamo giudizio critico e capacità decisionale, sappiamo tenere a bada le emozioni e abbiamo la capacità di sedere lì dove la competenza richiede un ruolo (non di genere).

Ma la realtà dice che si muore ancora per mano di uomo, che non si può dire “non ti voglio più” perché si finisce vittima di femminicidio, che se hai una minigonna passi davanti alla tua collega in pantalone, che alla presidenza della Repubblica mai nessuna donna ha ancora seduto, e che tutto quello che fai, alla fine è sempre scontato.

Non vi rendete conto di quante offese gratuite consegnate alle donne ogni giorno. 
No, non parlo solo agli uomini che oggi torneranno a casa con mimose e torte a forma di cuore.
Parlo anche alle altre donne, a coloro che ancora invidiano, che non si schierano, che stanno zitte, che non sanno fare squadra, che criticano, provano invidia, che cancellano, umiliano, annientano le altre donne, giudicando senza sapere.

E allora, sarebbe bello un 8 marzo nel quale fosse tangibile l’amore ed il rispetto nei confronti delle donne, tutte.
Un 8 marzo senza violenze, senza offese, senza soprusi, senza discriminazioni.

Un 8 marzo nel quale la donna viene coccolata ed apprezzata semplicemente per quello che è o per quello che si sforza di fare tutti i giorni.

Un 8 marzo nel quale la donna viene ammirata come quella creatura che da la vita, che prova ad amare sempre e comunque, che si rimbocca le maniche, sempre, che non si tira mai indietro, che lotta per quello in cui crede, che sciopera, se lo crede giusto, che parla quando c’è da parlare e tace quando deve tacere, che difende gli affetti, che cammina a testa alta anche quando subisce, che prova a ribellarsi, senza vergogna, che non si vende, né si (s)vende…mai.

Un 8 marzo nel quale l’amore degli uomini arrivi con una carezza e non con un fiore, che arrivi con il complimento mai fatto prima, con una parola, che tanta forza racchiude in sé, e che sa essere un ponte meraviglioso tra chi la proferisce e chi la ascolta con cuore sincero.

Un 8 marzo nel quale, ricordare il” perché l’8 marzo viene celebrato” sia motivo di riflessione e che possa essere il preludio di un piccolo/grande mondo nel quale forse un giorno, la donna camminerà al fianco dell’uomo, con lo stesso identico diritto alla dignità

 

Un Festival di Sanremo come non si era mai visto: con fuori la pandemia, senza pubblico, 26 (VENTISEI!) cantanti in gara, 8 giovani proposte, senza dopofestival ma con serate che finiscono a notte fonda (ma proprio fonda), i fiori sul carrello, qualche cosa interessante e un Achille Lauro che ruba la scena e non ce n’è per nessuno.

E poi le solite cose: Un’eccellente Orchestra, la simpatia di Fiorello, le scale che mettono in crisi, attrici e giornaliste al posto delle vallette, il televoto, la delusione quando non vince sempre il più bravo o quel che piace a te.

E così archiviata la 71esima edizione del Festival di Sanremo, ci mettiamo comodi e proviamo a raccontare a chi la Kermesse non l’avesse vista, qualche dettaglio, qualche curiosità.

Mi viene da pensare subito alla performance di Stefano Di Battista alle 2 di notte, nella prima serata del festival insieme alla violinista russa Olga Zacharova e alla Banda della Polizia di Stato,  in un meraviglioso tango. Perché non in apertura quel momento di musica? Stefano di Battista, uno dei più bravi sassofonisti jazz, che su quel palco vi era già stato, con sua moglie Nicky Nicolai in gara, e poi anche come ospite. Non si reggono così tante ore davanti alla Tv e così si finisce di perdere dettagli degni di nota. 

In gara quest’anno la metà dei cantanti era sconosciuta al grande pubblico, perché si era abituati a sentire i nomi noti, che hanno più e più volte calcato il palco sanremese. E invece quest’anno tra Renga, Ayane, Gazzè, Orietta Berti, Bugo (diventato famoso per la querelle con Morgan) abbiamo trovato La Rappresentante di Lista, Gaia, Fulminacci, Coma Cose, Willie Peyote. Alcuni di essi famosissimi tra i giovani per la loro arte diffusa su youtube, e simboli della musica Indi(pendente).

La verità è che alla quinta serata le canzoni in gara ci sembrano tutte carine, passabili, già canticchiamo i motivetti e sono già lontane le critiche fatte nella prima serata nella quale non si riesce a star dietro ai testi, si fa fatica a concepire come si possa stare su quel palco e stonare così tanto. Perché è stato anche il festival delle grandi stonature ed è mancata oltre all’intonazione anche un bel po’ di pathos, forse  a causa della mancanza del pubblico in sala. Non deve essere facile cantare in un teatro vuoto per 5 sere di seguito.

E così alla quinta ed ultima serata ho confermato alcuni giudizi positivi e ho rivalutato altri. 

Penso che il testo “Mai dire mai” di Willie Peyote sia uno spaccato di questo momento storico del mondo della musica in cui tutto viene spacciato per arte, ma alla fine è solo fuffa, come se bastasse finire su Spotify per essere un talento.

Che poi alla fine, al netto della vittoria sanremese – sono tanti i casi del passato di cantanti arrivati ultimi e poi divenuti strafamosi e con pezzi in vetta alle classifiche – saranno le radio, gli ascolti sulle piattaforme a decretare i vincitori veri, perché questa estate ognuno avrà il suo motivo preferito in testa, lo metterà in macchina (semmai si potrà tornare a viaggiare), o lo ascolterà prima di dormire.

Per me molto bene Ghemon  con “momento perfetto“, il pezzo funziona, il giovane Fulminacci che con “Santa Marinella” ha dimostrato di avere già una identità musicale spiccata, Colapesce e Dimartino – che in prima battuta non mi avevano convinto – e che con “Musica leggerissima” entrano a loop e sono i nuovi Righeira. Eppure resterà in mente anche quel “Quanto ti dico ti amo…” di Orietta Berti, l’unica intonatissima una sera dopo l’altra insieme ad Annalisa, che resta impeccabile in ogni performance ma forse proprio quel suo essere sempre senza nulla fuori posto, la penalizza. Arisa, Noemi, non mi hanno convinta, eppure Arisa ai tempi di “Sincerità” su quel palco catalizzava tutti. Ermal Meta non sbaglia e infatti si piazza al terzo posto, e vince anche il Premio “Giancarlo Bigazzi” per la migliore composizione musicale con la sua “Un milione di cose da dirti“.

Spiacevole caso Chiara Ferragni, che fa un annuncio su Instagram e utilizza anche il figlioletto Leon per invitare i suoi milioni di followers a votare suo marito Fedez in gara con la Michielin che erano 21esimi in classifica nella terza serata e che schizzano in zona podio. Assurdo e pure scorretto, ma questo è il potere assoluto di chi però può parlare solo a chi probabilmente non è dotato di giudizio critico. L’essere famosi è una cosa, il talento è un’altra. Mai mischiare le due cose, si finisce di restare incastrati in un limbo deleterio per la musica e l’arte.

Il fenomeno di questa 71esima edizione del Festival di Sanremo resta lui, Achille Lauro ed i suoi “quadri d’autore”. Vere e proprie performance artistiche che mostrano la versatilità del cantante romano, il suo desiderio di sdoganare l’ovvio e i cliché, di riportare all’essenza del proprio essere la vita del singolo, che può essere quel che vuole se possiede una propria identità che pulsa, che si affaccia al mondo, che mostra istinto e fragilità.

Ottime performance in tutte le serate di questa edizione del Festival di Sanremo, ma ieri sera mi ha toccato profondamente la sua “C’è la vie”, annunciato dal ballerino classico Giacomo Castellana.

Achille Lauro e quel suo monologo travolgente:

È giunto il nostro momento. La nostra stessa fine in questa strana fiaba. La più grande storia raccontata mai. Maschere dissimili recitano per il compimento della stessa grande opera. Tragedia e commedia. Essenza ed esistenza. Intesa e incomprensione. Elementi di un’orchestra troppo grande per essere compresa da comuni mortali. È giunto il nostro momento. Colpevoli, innocenti. Attori, uditori. Santi, peccatori. Tutti insieme sulla stessa strada di stelle. Di fronte alle porte del Paradiso. Tutti con la stessa carne debole. La stessa rosa che ci trafigge il petto. Insieme, inginocchiati davanti al sipario della vita. E così sia. Dio benedica Solo Noi. Esseri Umani”.

Achille Lauro e quella rosa piantata nel petto, che sanguina e che fa male come quelle parole violente e terribili che l’hanno investito e travolto spesso, durante il suo inizio di carriera: “Achille Lauro fai schifo, sei una vergognosa, mi fa schifo solo l’idea, vergognoso, volgare, inutile pagliaccio“.

E lui, canta, “C’è la vie”.

Zlatan Ibrahimovic ospite fisso, che fa ridere di tanto in tanto, che di sé parla in terza persona, che è stato serata dopo serata, un personaggio adeguato alla kermesse.

Tra le giovani proposte, vince un giovane con un nome davvero improbabile, Gaudiano, che sbaraglia tutti anche lui, Folcast, di cui sentiremo parlare molto in futuro,  il più bravo di tutti, a mio avviso con la sua “Scopriti” ed anche Davide Shorty dato per favorito con “Regina”, pezzo dalle sonorità già sentite e che mi ha ricordato moltissimo “un amore da favola” che fu di Giorgia.

Amadeus ha dichiarato che non presenterà il prossimo festival di Sanremo. 
Intanto anche per quest’anno – anno non facile –  ha saputo con garbo reggere le redini della famosa Kermesse canora, con indosso i suoi abiti – improbabili fuori dal palco sanremese – e con la serietà di chi non si piega neanche davanti alle critiche e alle offese che hanno investito la sua famiglia.

Tralascio la questione ascolti, perché quest’anno è tutto un po’ così.
Il coprifuoco ha forse “costretto” qualcuno davanti alla tv in questi giorni, ma c’è stato anche il fenomeno dei giovanissimi che hanno guardato Sanremo, e questo fenomeno andrebbe studiato.

Embè? – direte.
Non dici nulla sui vincitori?
Beh … meritavano il finale.

I Maneskin, vincitori della 71esima edizione, hanno sdoganato il rock a Sanremo, luogo della classica canzone sanremese; sono giovani e capaci di ulteriore miglioramento. Hanno una loro personalità artistica e li ho molto apprezzati nella serata dei duetti insieme a Manuel Agnelli nella loro versione di “Amandoti” dei CCCP. Meglio loro che Fedez, non erano i miei preferiti, non so se ricorderemo il refrain nei prossimi mesi, io sicuramente no ma sono contenta per i loro fan, mia sorella compresa.

Lunga vita ai Maneskin e alla musica, perché è lei che ci salva … sempre.

Simona Stammelluti 

Il Festival di Sanremo 2021 lo Vincono i Maneskin

Secondi Michielin Fedez

Terzo Ermal Meta

 

premio della critica “Mia Martini” a Willie Peyote con “mai dire mai”

Premio “Lucio Dalla” a Colapesce e Dimartino con “musica leggerissima”

Premio “Sergio Bardotti” (per il miglior testo)  a Madame con “voce”

Premio “Giancarlo Bigazzi” (per la migliore composizione musicale)  a Ermal Meta con “Un milione di cose da dirti”

 

Una terza serata davvero difficile da sopportare.
5 ore per 23 duetti, non sono proprio una passeggiata di salute, soprattutto se – come in questa edizione – ci si imbatte nei più brutti duetti della storia del Festival di Sanremo, fatta salva qualche eccezione che con piacere vi racconto.

E allora si finisce per attendere ore ed ore l’arrivo del nostro idolo, Achille Lauro che ormai è l’unica certezza di questa edizione ventiventi e che anche ieri sera ha dato lustro alla Kermesse canora con una performance di grande impatto emotivo e visivo. Con un monologo su Penelope, una intensa Monica Guerritore appare sul palco subito dopo la pubblicità catapultando il pubblico a casa in una dimensione artistica di altissimo livello e degno prologo dell’ingresso in scena del quadro dorato dell’artista romano. “Penelope” è la canzone regalata nella terza serata del festival insieme ad Emma che non mi è sembrata invece abbastanza calata nell’atmosfera surreale e appagante.

La valletta ieri sera era straordinariamente bella, un po’ Cristina Chiabotto per intenderci, ma molto meno spigliata ed anche lei ha avuto seri problemi nella lettura. Mi domando se non sia il caso di fare un corso di lettura anche alle modelle che poi finiscono per fare figuracce sui palchi prestigiosi e fuori dalle passerelle. Lei è Vittoria Ceretti, classe 1998, “bella ma che non balla”.

Fiorello un po’ meno presente sul palco, perché una serata così lunga e a tratti ammorbante non si era mai vista. Simpatica la battuta sul fatto che prima lo scambiavano per Cloony ora per Dalema e così si fa tagliare il baffetto in diretta da Amadeus – che resiste come una macchina da guerra –  e poi sulle dimissioni di Zingaretti. La politica ormai fa davvero ridere, è proprio il caso di dirlo.

L’omaggio a Lucio Dalla nel giorno del suo compleanno da parte dei Negramaro in apertura di serata non convince. Quel cantare solito di Sangiorgi, pieno di ghirigori e strascichi, poco si legava con l’incisività che fu del grande Dalla.

E ora veniamo ai 23 duetti, sui quali spicca ancora Orietta Berti che canta con le Deva, “Io che amo solo te“. La sicurezza della Berti, l’intonazione, la presenza scenica rendono tutto perfetto, incastonata anche in 4 gemme tra le quali non si può non notare la bravissima Verdiana Zangaro. 

Poco altro degno di nota.

Fulminacci con Valerio Lundini e uno stratosferico Roy Paci alla tromba che scelgono come pezzo “Penso positivo“, che finisce in: “la musica, la la musica … la pandemia”

Molto bene i Maneskin con Manuel Agnelli in “Amandoti”. Agnelli è parte integrante del gruppo, è guida senza sostituire il leader e la performance è appagante.

Samuele Bersani accompagna Willie Peyote con la sua “Giudizi Univesali”. Bello rivedere Bersani, ma fiacca l’esibizione.

Ghemon sceglie i Neri Per Caso con un medley “Le ragazze”,  “Donne”, Acqua e sapone” e “La canzone del sole”. Un bel salto nel passato con i cantanti divenuti famosi per il canto a cappella, l’orchestra per un po’ si ferma, ed è tutto molto suggestivo.

Gaia divide il palco con Lous and the Yakuza. Bravissima cantante congolese che in francese canta divinamente la sua parte in “Mi sono innamorato di te” che fu di Tenco. A questo servono i duetti, a dare nuovo luce ai cantanti in gara e in questo caso, l’intento è davvero riuscito.

Madame molto molto bene con  Prisencolinensinainciusol” di Celentano, che simula una lezione in classe ed è molto efficace oltre che scenograficamente gradevole.

L’omaggio ai lavoratori dello spettacolo da parte de Lo stato sociale è d’impatto e ridesta dalla calma piatta in cui versa la kermesse per diverse ore. Con Sergio Rubini e con gli addetti ai lavori in “Non è per sempre” degli Afterhours.

Non mi hanno convinto affatto Noemi con Neffa in “Prima di andare via“. Tutto sottotono, si riprendono nel finale ma ormai è troppo tardi e ci si scopre ad ammirare la mise di Noemi anziché i colori della sua voce.

Male anche Arisa, con Michele Bravi in “Quando” di Pino Daniele. Qualcosa si è rotto, si è inceppato in Arisa, ha perso lo slancio e la felicità nel cantato e a nulla serve il cambio di look. Bravi sembrava non voler neanche essere lì.

Ermal Meta è Caruso per una sera, con “Napoli Mandolino Orchestra”. Compitino portato a termine che gli assicura la vetta della classifica alla fine della terza serata del festival.

Finisco sempre per nominarla per ultima, ma ieri sera avrebbe meritato il podio la macchina da guerra che risponde al nome di Annalisa. Chissà se l’ha avuta mai una incertezza nel cantare. Io non l’ho mai sentita perdere un colpo e ieri sera è stata pazzesca con il chitarrista Federico Poggipollini  in “La musica è finita” di Ornella Vanoni. Stamane è stata l’unica esibizione che ho desiderato riascoltare.

E’ sicuramente l’edizione del “sociale” perché anche stasera tra un siparietto di Zlatan Ibrahimović ed una eccellente Valeria Fabrizi che ha raccontato di suo marito scrittore di canzoni, c’è stata Antonella Ferrari che calca il palco con un stampella e che regala un monologo sulla sclerosi multipla e poi Donato Grande l’asso del Powerchair Football.

Che aggiungere … stiamo vivendo di caffè a notte fonda e allenando la resistenza.
Ma dobbiamo arrivare fino in fondo, perché Sanremo è istituzione come la bandiera bianca rosso e verde.
E preferiamo questi colori, a quelli della pandemia

Stasera si decreterà il vincitore tra le nuove proposte.
Che vinca il migliore (Folcast)

A domani

LaStammelluti

Sanremo rispecchia da sempre il detto: “nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli”.
E dunque noi ne parliamo.

Per la seconda serata non ci sono molti plausi, considerato che è stato davvero difficile arrivare alla fine, per una serie di motivi. Uno su tutti, la minor presenza sul palco di Fiorello, considerato che è lui a tenere il ritmo della Kermesse canora. Anche la “valletta” non è stata all’altezza della prima serata. Al posto della De Angelis arriva una Elodie, che malgrado si atteggi a mannequin risulta impacciata anche nella semplice lettura dei nomi dei cantanti in gara. Per non parlare del medley, con scenografia e corpo di ballo stile Beyoncè senza essere Beyoncè.

Ma andiamo subito a dire cosa salvo di questa seconda serata di Sanremo ventiventuno. 

In generale nella serata salvo ancora Achille Lauro, che con una strepitosa “Bam Bam Twist” ridona guizzo e vitalità alla serata. Scenicamente impeccabile, lui vestito in doppiopetto, con una lunga treccia rossa (per omaggiare Mina) diventa protagonista come solo lui sa fare. Peccato che in quella performance ci fossero Francesca Barra e suo marito Claudio Santamaria, che non erano assolutamente intonati al contesto creato dall’artista, ma mostravano solo il loro egocentrismo (il bacio finale se lo potevano anche risparmiare).  Santamaria attore cinematograficamente sopravvalutato e la Barra che pensa per davvero di saper fare tutto (anche ballare un twist).

Orietta Berti nostra, dimostra – così come la Bertè nella prima puntata – quanto importante possa essere su quel palco l’intonazione, la presenza scenica e il controllo della voce. Bravissima, nel suo stile, inconfondibile il suo modo di cantare e senza una imperfezione, tanto da far sfigurare molti giovani sconosciuti ma pur sempre big, per la logica di Sanremo.

Nessun brano da segnalare tra le altre 4 nuove proposte in gara, ma a passare il turno sono stati Wrongonyou e Davide Shorty,  con un pezzo “Regina” che sembra clonato a “Un amore da favola” di Giorgia, stesso giro, stesso riff.
Ma credo ancora che Folcast venerdì vincerà a mani basse perché non c’è gara quando si è così bravi. 

Ermal Meta e la Ayane non deludono, lo Stato Sociale resta nel suo range di comodità, con un pezzo sulle contraddizioni dell’epoca moderna. Segnalo invece il pezzo di Fulminacci che avevo già apprezzato in altre situazioni extra Sanremo e che con quel testo mi ha ricordato che non sempre c’è un buon motivo per restare, ma che di restare, a volte, ne abbiamo bisogno. Il pezzo di intitola “Santa Marinella”.

Irama resta, ma gareggia con il video delle prove.
Il resto, nel cestino delle cose che non ricorderemo.

Ieri sera in platea c’erano i palloncini al posto delle poltrone vuote della prima serata e sui palloncini a forma fallica, Fiorello imbastisce un siparietto insieme ad Amadeus. Scelta non riuscita, a mio avviso, ma tanto a Sanremo tutto (o quasi) è possibile, come il valletto con i guanti che consegna i fiori alle signore.

La scelta degli ospiti è un po’ discutibile. 
La storia delle disavventure del maratoneta azzurro Alex Schwazer raccontate dal diretto interessato, circa le varie vicende sul doping, che però poco si intonano ad una kermesse che alla fine vince anche per quei momenti di leggerezza, come gli stacchetti ballati da Fiorello in pieno stile Varietà del sabato sera.

Ospiti anche Gigliola Cinquetti, con Fausto Leali e Marcella Bella e il salto nel passato è immediato ricordando a quelli come me che sono nati negli anni 70 quante edizioni del festival abbiamo visto e sentito e come le edizioni siano cambiate quasi radicalmente dai tempi di “Montagne Verdi”. Ma la vecchia guardia ancora regge.

Il trio “Il volo” è ospite con un omaggio a Morricone. Bene l’omaggio, loro non eccellenti.

Il momento che ho meno apprezzato è stato senza dubbio l’arrivo della Pausini, fresca fresca di Golden Globe, con indosso un mantello glitterato che è sembrato davvero troppo, la sua solita “zeppola” in bocca, l’emozione (secondo me finta) da ragazzina sprovveduta e con una voce che ormai non è più la stessa. Canta (non bene) la canzone che le l’ha condotta al prestigioso premio, ma che è di una noia mortale. Per me la Pausini inizia e finisce con “marco se n’è andato e non ritorna più”, malgrado il successo mondiale della cantante italiana, forse la più conosciuta al mondo e amata moltissimo nei paesi latini.

La giuria demoscopica premia Ermal Meta, poi Irama, Ayane e lo Stato Sociale, e va bene così, perché non c’era molto altro ieri sera. E comunque resto convinta del fatto che cantare senza pubblico sia come durante le prove, bene ma mai benissimo, anche se c’è chi è macchina da guerra e sa come si fa a gestire una performance nella maniera migliore possibile.

Vorrei concludere con le parole di Achille Lauro durante la sua performance: “Godere è un obbligo. Dio benedica chi gode”.

Beh noi non si è goduto molto ieri sera.
Grande fatica arrivare fino in fondo.
Ma resistiamo perché “Sanremo è Sanremo”.

A domani

La Stammelluti

Sì, no, con il pubblico, senza pubblico, a febbraio, no a marzo.
Insomma intenzionati a farlo anche quest’anno, il Festival di Sanremo, alla fine tra mille problemi e critiche, sono riusciti a realizzarlo. E se l’idea era quella di far dimenticare per qualche giorno (per qualche ora) che viviamo ormai in tempo di pandemia, allora a prescindere dal risultato che porteranno a casa, ci sono riusciti.

Perché è proprio vero che un anno fa, il Festival di Sanremo fu l’ultimo momento felice e spensierato prima della drammaticità dei tempi che sono accorsi e che ci hanno investiti.

E siccome squadra che vince non si cambia, ecco anche quest’anno Fiorello che affianca Amadeus, ed anche quest’anno il Festival è in duo. Amadeus, che già dallo scorso anno aveva preso dimestichezza che le dinamiche della Kermesse, non fa fatica a riprendere lì dove aveva lasciato e Fiorello, che ormai è uno showman collaudato, balla e canta senza incertezze e la sua performance, tra gag e stacchetti musicali quasi rassicura.

Non è inutile sottolineare che Sanremo è Sanremo perché sostenuto da una orchestra strepitosa, guidata dal maestro De Amicis, che vanta musicisti di caratura e che quest’anno, fanno anche il sacrificio di suonare con indosso le mascherine. E sono quelle, insieme al carrello che trasporta i fiori per le signore del Festival a ricordarci che siamo in tempo di covid.

Quest’anno la scelta della figura femminile ricade – per fortuna – su una giovane attrice “made in Italy”, Matilda De Angelis, che ha dalla sua il fatto di essere autentica nei suoi pochi centimetri di altezza, senza troppe sovrastrutture e di possedere la spigliatezza di chi per mestiere deve essere qualcos’altro sembrando credibile. Carino il monologo sul bacio, ed è anche una discreta cantante, che a metà festival si cimenta in duetto con Fiorello in “Ti lascerò” che fu di Oxa-Leali.

Il pubblico non c’è, così come da decisione finale, ma non manca.
In fondo, di solito è un pubblico solo di bei vestiti e di autorità Rai nelle prime file; per il resto non è mai stato un pubblico chissà quanto competente o di slancio. Gli applausi sono finti e su questo dettaglio Amadeus in apertura di Festival dichiara “penserò che siano quelli degli spettatori da casa“.

Lo dico adesso così mi tolgo il pensiero, le canzoni in gara non sono un granché e nella prima serata ho apprezzato molto più i cantanti ospiti che quelli che si contengono la vittoria.

Diodato il primo, che ricanta il pezzo vincitore della scorsa edizione; emozioni e ricordi, qualche stonatura, ma alla fine resta un bel regalo fatto all’Ariston. E poi la Bertè in forma e in gamba, che all’Ariston regala un medley dei suoi successi, ben arrangiati, interpretati per come si deve e appassionata, mentre porta sul palco le scarpe rosse simbolo della lotta contro la violenza delle donne. C’è spazio anche per il nuovo singolo “Figlia di…” un brano autobiografico, sincero e ironico firmato dalla stessa Bertè, con Pula e Chiaravalli. E poi Achille Lauro, che calvalca l’onda ed è sicuro nel suo ruolo e nel suo look.

Superospite della prima puntata, Zlatan Ibrahimović, che riempie il tempo che gli è concesso con qualche battuta e la sua imponente fisicità.

Prima dei big in gara, partono le nuove proposte: niente di che, ma se sai cantare vien fuori e così delle prime 4 nuove proposte salvo lui, Folcast, classe 1992, di Spinaceto, famiglia di musicisti, suona un po’ tutti gli strumenti e poi però approda alla chitarra che diventa sua compagna di viaggio. Con la sua “Scopriti” si assicura l’accesso alla finale. Buono il pezzo, bella la voce del cantautore e una buona capacità di gestire il mezzo vocale.

In una prima serata che si allunga fino a notte fonda, Amadeus trova il tempo per un appello alla liberazione di Patrick Zaki, lo studente dell’università di Bologna detenuto da un anno in Egitto.

Sarà che la prima sera della famosa kermesse, l’audio non è proprio al meglio o che i pezzi ci sono sconosciuti e facciamo fatica a metabolizzare testo e musica, ma al primo ascolto dei 13 brani in gara, non mi è sembrato ci fosse un gran livello di canzoni, ma come tutti gli anni ci sono delle certezze e delle conferme, oltre a qualche sorpresa che spiazza.

A parte che la classifica di gradimento stona completamente con la realtà delle esecuzioni, dire che quel primo posto di Annalisa, che ha cantato per terzultima è apparso scontato, visto che lei è sempre quella impeccabile, quella senza mai un pelo fuori posto, che canta senza stonare mai, che ha sempre il pezzo che le è congeniale, che è sempre la prima della classe, che è sempre prima, senza però vincere mai. “Dieci” il suo pezzo, e fosse solo perché non ha sbagliato una nota, lei è tra i big che salvo dalle prima serata del Festival. Insieme a lei Max Gazzé con “Il farmacista“, testo con il quale il bravo cantautore, veterano del Festival, vestito come un Farmacista dell’epoca di Leonardo, instaura un ipotetico dialogo con una donna, alla quale regala una seria di “rimedi” per i suoi malanni d’amore. Alcuni riferimenti a “L’elisir d’amore” di Donizzetti, fanno del pezzo una chic-cheria.

E dulcin in fundo – che però lui è proprio in fondo alla classifica – il mio preferito tra i big della prima serata del Festival di Sanremo è Ghemon, in abiti più sobri rispetto al solito, con indosso un completo scozzese e i capelli in libertà con la sua “Momento perfetto“. Il giovane avellinese, quasi irriconoscibile sul palco dell’Ariston, vince per me, per testo e arrangiamento e quel “country bluegrass folk” che a Sanremo porta una ventata di spensieratezza e di voglia di cantarla. Il ritornello si infila in testa e scommetto che questo pezzo sarà il pezzo dell’estate 2021.

Ci tengo a precisare che alcune mie aspettative sonore sono rimaste deluse: Arisa, per esempio, con una canzone scritta da Gigi D’Alessio che non le ha dato la possibilità di esprimersi a dovere. Rivorrei l’Arisa di “Sincerità”, anche se i tempi cambiano ed anche i dolori.
Bellissima nel suo vestito d’argento Noemi, ma poco arrosto, brano debole, non mi ha convinta.

Tra i nomi meno conosciuti ma inseriti tra i Big, bene Madame, rapper italiana, 18 anni, buono il pezzo “Voce”, da riascoltare sicuramente.

Renga, non pervenuto.

Maneskin, tanto rumore, poca sostanza.

Pessimi Fedez Michielin.

Ultima riflessione sulla scelta dell’infermiera Alessia Bonari, ospite di Amadeus in questa prima puntata, che è divenuta famosa per i segni della mascherina sul volto, dopo ore e ore in un reparto covid nella scorsa primavera. Avrei fatto un’altra scelta, avrei invitato la donna la cui foto è divenuta il simbolo dell’emergenza covid, Elena Pagliarini, ma mi rendo conto che alcune scelte nascono da alcuni cliché e si sa “Sanremo è Sanremo”.

A domani

La Stammelluti

Sono passati 31 anni dalla morte di Denis Bergamini, il calciatore del Cosenza, morto  – oggi si sa – per soffocamento e non suicidatosi come invece aveva sempre dichiarato l’ex fidanzata Isabella Internò, che ad oggi risulta essere l’unica indagata per quella morte di cui ancora si aspetta la verità.

La Internò ha ricevuto oggi dalla procura di Castrovillari l’avviso di conclusione di indagini contestandole il “concorso in omicidio del calciatore Bergamini”.

I magistrati hanno prosciolto il marito della donna, Luciano Conte, poliziotto e Raffaele Pisano, sospettato di concorso nel delitto, e che quel pomeriggio del 18 novembre del 1989 – giorno della morte di Denis Bergamini – alla guida dell’autocarro, percorreva la strada ionica all’altezza di Roseto Capo spulico e che avrebbe schiacciato il corpo di Denis, che però si trovava già sull’asfalto e non travolgendolo mentre era in corsa, così come la Internò ha continuato a dichiarare durante questi trentuno lunghi anni.

Ma sul corpo di Bergamini è stata effettuata dopo 28 anni dalla sua morte una nuova straordinaria perizia, dai professori Antonello  Crisci, Carmela Buonomo e Maria Pieri hanno portato alla luce la verità circa la reale morte di Denis e cioè “morte per soffocamento, verosimilmente con una busta di plastica” e poi dunque il suo corpo, sarebbe stato adagiato sull’asfalto.

L’Avvocato della famiglia Bergamini, Fabio Anselmo, in una dichiarazione, si è detto sorpreso della modalità con la quale la procura ha informato la famiglia Bergamini circa la chiusura delle indagini, ossia attraverso un comunicato stampa rilasciato a tutti i giornalisti: “Ci auguriamo di poter conoscere i dettagli degli atti, e abbiamo già inviato regolare richiesta, poiché la famiglia ne ha diritto, come avrebbe avuto diritto di avere questa notizia in modo differente e non attraverso i giornali”.

E’ giusto ricordare che l’inchiesta sulla morte del calciatore fu riaperta sei anni or sono dall’allora procuratore di Castrovillari Dott. Eugenio Facciolla

 

Era il 2016 e Maria Isolina Catanese, imprenditrice vinicola di Menfi, in provincia di Agrigento, mentre viaggia in aereo in una delle sue trasferte da Roma a Francoforte, prova lo stupore di sedere accanto ad una persona che sicuramente non immaginava potesse viaggiare in classe economy: al suo fianco c’è Mario Draghi.
Fila 8. Lei all’ 8A, lui all’8C.
«Dopo il decollo – racconta la Catanese in un post sui social network – ci siamo girati contemporaneamente a prendere i nostri rispettivi iPad. Io sono rimasta in silenzio per un po’, facevo finta di lavorare, ma poi non ce l’ho più fatta e mi sono girata verso di lui a chiedere, quasi sottovoce: “mi scusi… ma io … ho l’onore di viaggiare con il prof. Mario DRAGHI??” … “ed in classe economy??»
A quella domanda in lui nasce una sincera risata e prontamente risponde: “e perché no?”
E lei gli risponde, sgranando gli occhi: “ma Lei ha visto chi è seduto in prima classe?!”
Lui ride ancora e poi a sorpresa, mette via l’iPad e incominciano a chiacchierare.
Lui le chiede se va a Francoforte per studio o per lavoro.
Per lavoro” – risponde Maria con orgoglio. Era quello uno degli ultimi viaggi in cui l’imprenditrice portava in giro per il mondo il frutto del lavoro della sua terra natìa: i vini settesoli e Mandrarossa.
Con grande stupore dell’imprenditrice siciliana, Mario Draghi conosce benissimo la storia della cantina.
Conosceva anche bene l’opera compiuta da Diego Planeta; fu lui infatti a nominarglielo per primo.
Poi con tanta semplicità le raccontò delle sue vacanze in Sicilia con la moglie l’estate precedente; le impressioni sulla Sicilia e su quanto fosse meravigliosa; e così via …
Un continuo semplice scambio di racconti fino all’arrivo a Francoforte.
Appena atterrati le disse:  “dunque, riassumendo: se io vado in un ristorante a Francoforte e chiedo una bottiglia di Settesoli sarà opera sua?
“Non proprio”- rispose Maria – ma vengo qui per far crescere la conoscenza del marchio”.
Lei tira fuori il suo biglietto da visita, precisando che non si sarebbe aspettata una corrispondenza, ma era solo per ricordargli eventualmente il brand scritto su quel biglietto.
Al ristorante eventualmente avrebbe dovuto chiedere di quel marchio mentre nella grande distribuzione avrebbe trovato Settesoli. Tutto chiaro.
Si salutano cordialmente. Lui le augura buona fortuna, poi sono arrivati degli uomini in abito scuro che lo hanno scortato fino ad una porta secondaria del finger.
Rientrando in Sicilia, dopo il suo viaggio, Maria chiese il permesso alla direzione di inviare una 3L di Cartagho alla Banca Centrale Europea.
Qualcuno assecondò. Altri risero.
Non sa dove spedire. Maria fa delle ricerche, trova i contatti della BCE, le risponde una segretaria, espone la richiesta, le passa un altro interno. Altra segretaria, generalità, racconti sul volo e il motivo del regalo.
Spiegai che a nome della cantina desideravo omaggiarlo con il frutto del lavoro dei nostri agricoltori come da racconto in aereo. La signorina mi fece attendere qualche minuto al telefono e poi mi disse che potevo inviare il regalo all’indirizzo che mi avrebbe fornito e che il dono non doveva superare il valore certificato di € 50“.
Spedizione organizzata, solo due righe di suo pugno e a nome di tutti, inviò la Jeroboam di Cartagho.
Circa quindici giorni dopo, al ritorno da un altro viaggio di lavoro, insieme a la posta accumulato e tra tutta la pubblicità trova una busta BCE. Non si aspettava certo una risposta, Maria Catanese; ed invece apre la busta e trova i ringraziamenti di Mario Draghi, scritti a mano, di suo pugno.
Un uomo di grande levatura, di enorme potere, ma allo stesso tempo semplice ed umile, che probabilmente con altrettanta umiltà si prenderà cura del paese.
Ho incontrato Mario Draghi … e mi ha fatto una buona impressione!” – conclude Maria