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Ogni anno infiocchettiamo pensieri a favore delle donne, ci schieriamo contro la violenza, ci atteggiamo a persone integerrime e incapaci di qualunque violenza.

Poi guardiamo i numeri, e sale lo sgomento.
Eppure la violenza sulle donne non è solo una violenza fisica. Lo diciamo ogni anno e ogni anno siamo sempre punto e daccapo.
E’ violenza ogni qualvolta si immagina un mondo in cui la donna ha un ruolo minore, di secondo piano, in società, in politica, nelle professioni in cui ancora l’uomo domina la scena;
ogni volta che non la si considera allo stesso livello di un uomo, che non la si considera meritevole di una promozione, di un ruolo di rilievo, di un nome sulla porta di una stanza di comando;
ogni volta che si pensa di poterla soggiogare anche con parole che non sono educate, consone, rispettose, o quando con atteggiamenti di potere si pensa di poterle sottomettere, impaurire, “conquistare”, dettare loro regole di comportamento che possano piacere a chi è più in alto, volendole adeguare ad un codice in cui la donna ancora deve sottostare, deve stare a casa, deve lasciare spazio all’uomo e se non lo fa allora deve essere redarguita, rimessa al suo posto, segregata dentro uno stereotipo di genere che non è più possibile concepire. 

E’ violenza tutte le volte che immaginate una donna che non ha potere neanche sulle proprie emozioni e sui propri sentimenti, e che dunque non può lasciare un uomo quando non ama più, ma deve sottostare, deve subire, deve arrendersi ad una condizione che sta bene a tutti tranne che a sé stessa, come se la donna tutta, avesse un valore inferiore all’uomo.

E’ violenza anche quella psicologica, quella che si insinua dietro finte parole d’amore. 
Ti vorrei così […] Mi piacerebbe che tu facessi […] Ancora non mi hai ubbidito […] 
lasciando intendere che non è e non sarà mai “perfetta” agli occhi dell’uomo che invece fa sempre e solo quello che vuole, e che reputa giusta qualunque sua azione e parola, anche gridare “sei una puttana”, oppure assestando uno schiaffo, che poi diventano due, tre, che poi diventano massacri dentro mura che sanno essere solo prigione e sede di violenza domestica. E’ violenza anche quella di chi sa e non parla, di chi fa finta di non sapere tanto “non sono affari miei”. 

La donna non può desiderare, non può scegliere un uomo con cui intraprendere una relazione, perché sennò resta una poco di buono, l’uomo che lo fa, che sceglie, che fa il piacione in giro, è invece macho, è uomo di mondo.

Ogni anno noi giornalisti ci ritroviamo a fare i famosi “report” su quello che accade, siamo costretti a raccontare numeri, eventi, reati.
Lesioni, costrizioni al matrimonio, stalking, e adesso anche il “reveng porn” quella subdola e vigliacca diffusione illecita di immagini e video sessualmente espliciti. Perché un uomo si sente autorizzato a filmare un rapporto sessuale, si sente forte, potente, lui può tutto, può divertirsi e poi far divertire anche gli altri, violando la privacy della donna che ha scelto quel rapporto sessuale, liberamente, ma che poi si trova imprigionata dentro la diffusione di immagini che la riguardano e che la offendono, la annientano, le tolgono tutto.

E allora non serviranno i convegni, le panchine rosse dedicate e neanche la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, se non cambiamo il modo di comportarci, se non educhiamo i ragazzi che diventeranno uomini ad avere rispetto della donna, prima ancora che insegnare alle ragazze che diventeranno donne a difendersi dall’uomo violento, che la denigrerà, che la offenderà, che la circuirà, che la violenterà e che non le riconoscerà mai diritti, capacità, ruoli.

L’ipocrisia di un giorno nel commemorare le vittime di femminicidio, di violenza, non laverà via colpe, non ripulirà coscienze. Vorrei un cambio di rotta, mentre si incomincia dal basso, dall’insegnare a chiedere scusa, dal rispetto che si deve alla donna come essere umano e come essere umano capace e libero di dire NO, senza finire vittima di un sistema che la contempla come una costola di chissà quale Adamo che resta uomo e pertanto, imperfetto.

Simona Stammelluti 

Andrà in onda su Rai Radio 3 il 25 novembre alle  ore 20,30 – per la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne – la lettura Barbablù/Bluebeard, testo di Hattie Naylor, traduzione di Monica Capuani, interprete Tommaso Ragno e con la regia di Veronica Cruciani; sonorizzazione a cura di Giovanna Natalini, introduzione di Simona Argentieri, a cura di Laura Palmieri.

 

Veronica Cruciani porta in radio un testo feroce, drammatico, potente e necessario perché la violenza contro le donne è sempre più al centro del dibattito pubblico: persino in un’epoca che si professa civilizzata come la nostra il fenomeno è in aumento.

 

È un testo controverso, che pone interrogativi e questioni che ad alcuni potrebbero risultare “scandalosi”, questo Bluebeard della drammaturga britannica Hattie Naylor, monologo teatrale che ha debuttato all’Old Vic di Bristol nel giugno 2013 per poi approdare al Soho Theatre di Londra, e ancora mai rappresentato in Italia.

Un racconto in prima persona, senza mezze misure e senza sconti, di un uomo che confessa le sue imprese sessuali, senza indulgenza verso di sé o le sue partner. Una confessione che contiene in sé (come la favola di Perrault) due tratti tipici dello schema criminologico che si ritrova nella casistica delle forme più gravi di violenza di genere: la dipendenza / sottomissione al potere maschile e l’isolamento della donna vittima.

 

Dalle note di regia di Veronica Cruciani

Le donne continuano a morire. Il femminicidio è l’esplosione di violenza che porta all’uccisione di una donna quando decide di non rispettare il confine del ruolo impostole da un uomo. Come l’ultima moglie di Barbablù, che oltrepassa la soglia della stanza proibita.

“Ho sempre voluto scrivere un Barbablù”, dice la drammaturga inglese Hattie Naylor. “Barbablù si inserisce in modo molto scomodo nella tradizione della fiaba, perché è un racconto particolarmente raccapricciante. Ci sono pochi serial killer nelle fiabe. La mia ispirazione è stata anche la bellissima versione di Angela Carter in La camera di sangue. Non mi ha mai convinto l’opinione comune sulla morale di Barbablù, e cioè che “la curiosità ha un prezzo”. Di solito le fiabe sono avvertimenti, ma la punizione che tocca alla nuova moglie di Barbablù è del tutto sproporzionata rispetto al crimine”.

Nella mia visione lo spazio di Barbablù è il luogo del narcisismo maschile. È lo spazio in cui l’aguzzino costruisce la documentazione celebrativa delle sue gesta ero(t)iche, che è anche lo spazio che i corpi delle donne-vittima hanno abitato.

Questo moderno Barbablù parlerà al microfono – strumento che metterà in luce la dimensione di auto-rappresentazione perversa della propria vita. Il tentativo di narrarsi, celebrarsi, giustificarsi, di fare mondo, di essere mondo. Di lasciare traccia, una traccia manipolata e costruita che disegna la propria autobiografia adulterata.

“Jung credeva nelle storie archetipiche, storie che ci colpiscono nel profondo, e che risiedono da e per sempre nell’‘inconscio collettivo’”, continua Hattie Naylor. “Quando attingi a un archetipo, stai utilizzando un modello durevole, solido e familiare, con risonanze emotive già molto profonde. È un grande trampolino.  Puntare un riflettore sui luoghi più bui della nostra condizione umana, con le sue infinite sfumature e contraddizioni. Astenendosi dal giudizio, ponendo interrogativi difficili, lasciandoci preda di complessi dilemmi. È questo il mandato delle fiabe immortali, della tragedia greca, della migliore drammaturgia contemporanea”.

 

 

I Carabinieri della Stazione di Canicattì e del Centro Anticrimine Natura di Agrigento, nell’ambito dei servizi di controllo del territorio finalizzati al contrasto dei reati in materia ambientale disposti dal Comando Provinciale di Agrigento, hanno perlustrato l’area di Contrada Cazzola, che si estende dal territorio di Canicattì fino al confine con Castrofilippo. I militari hanno scoperto un’area isolata, trasformata in enorme discarica a cielo aperto. I Carabinieri hanno battuto palmo a palmo i 12.000 metri quadrati di Contrada Cazzola, scoprendo 23 siti colmi di rifiuti speciali e pericolosi, ingenti quantità di eternit, addirittura in un sito 15 cassoni in eternit accatastati, e poi plastica, pneumatici, vetro, materiali di risulta dell’edilizia, sfalci di potature, mobilie intere ed anche stoccaggi di generi alimentari, alcuni dei quali riconoscibili anche per il lotto di provenienza. I Carabinieri hanno accertato come l’area sia priva di alcuna precauzione per evitare eventuali dispersioni di sostanze inquinanti nell’ambiente circostante. Nel corso della perlustrazione, durata un’intera giornata, i Carabinieri hanno sorpreso A P, sono le iniziali del nome, 75 anni, di Canicattì, pluripregiudicato, bloccato in flagrante a bordo della propria Moto Ape, sulla quale aveva stivato circa 250 chili di rifiuti ferrosi. A.P è stato deferito alla Procura della Repubblica di Agrigento perché responsabile di traffico illecito di rifiuti, ed il mezzo sequestrato a fine di confisca. Gli accertamenti dei Carabinieri proseguono per identificare i proprietari della vasta area, sottoposta a sequestro.

Non mi sentivo tanto bene, forse era solo il male di stagione.
Ogni anno di questi tempi scatta quel fastidioso raffreddore di due o tre giorni.
Ma quest’anno è diverso; lunedì andrò a fare il tampone, per i fatti miei, così mi tolgo il pensiero.
Lunedì 9 novembre siamo in tanti davanti al laboratorio privato, tutti in attesa della stessa cosa, sapere se si è o meno positivi al Covid-19.
E’ il cosiddetto tampone rapido, ti danno il risultato in meno di un’ora.
In meno di un’ora scopro di essere positiva.
Che faccio?
Prima di ogni altra cosa, chiedo ai miei familiari di sottoporsi allo stesso test a tempo di record; tutti negativi, per fortuna.
Resto sola.
Il medico curante avvia le comunicazioni con la Asp, mi dà la cura che mi necessita: tachipirina, antibiotico, visto che mi fa male anche l’orecchio.
Aspetto.
Nelle ultime ore ho letto di tutto.
Non funziona niente, sembriamo malati di serie B.
Ma in Calabria, mi domando, esistono malati di serie A? Sono mai esistiti malati di serie A?
Ho avuto a che fare con la Sanità pubblica in Calabria in passato, per 11 lunghi anni, potrei scrivere un trattato su cosa non va. La Sanità fa acqua da tutte le parti, si sta scoperchiando tutto lo schifo atavico di una terra di ‘ndrangheta.
Aspetto.
Penso che sarò l’ennesimo “isolato abbandonato”.
Sono sola.
Ma fortunatamente ho chi mi aiuta, se ho bisogno. Medicine, spesa, chiamo, lei arriva.
Penso a chi però non ha l’amica del cuore che aiuta materialmente e rinfranca lo spirito.
Aspetto. 
E’ mercoledì 11 novembre quando da numero anonimo mi chiama un ragazzo che dice di essere dell’Asp e che con un linguaggio quasi incomprensibile mi avvisa che mi richiameranno per dirmi quando fare il tampone. Dovrebbe essere il 19, no, il 21, no il 23. C’è confusione in quel che dice, ma è certo – dice – che qualcuno mi avviserà. E’ il primo tampone ufficiale, quello che devo fare e che dovrò fare recandomi con il mio mezzo al Drive-in allestito in Taverna di Montalto Uffugo in provincia di Cosenza. Sì, perché solo chi non deambula, riceve il tampone a domicilio, così mi han detto.
Nessuno mi richiama, chiamo io al medico preposto al servizio e vengo a sapere che il mio nome è inserito nell’elenco dei tamponi da effettuare il giorno 18 novembre. Ma nessuno mi aveva avvertito. La programmazione è fatta un po’ alla carlona, penso, ma non lo dico.
A che ora? – chiedo.
Dalle 8.
Dalle 8 sono lì.
C’è grande caos, tante, tantissime macchine in fila, non si capisce dove mettersi: dalla parte di chi ha già il covid o da quella di chi ancora non sa? Chiedo. Sono nella corsia sbagliata. Mi sposto, ma tanto non cambia un granché.
Aspetto.
Sono quasi le 13 quando arriva il mio turno.
Mi rendo conto che la situazione è complicata in quel posto.
Il personale è troppo poco per smaltire quella mole di lavoro, e allora perché nessuno interviene?
Domando ad una dottoressa che è sul posto quando mi verrà consegnato il risultato del tampone effettuato.
Mi viene risposto che se sono negativa nessuno mi comunicherà nulla. Se invece il tampone processato dovesse risultare ancora positivo me lo comunicheranno e allora si dovrà ricominciare tutto daccapo.
Da sola, l’attesa, nessuno che dall’amministrazione comunale si domandi se io abbia o meno bisogno di qualcosa o che sia capace anche di un gesto di pietà, una vicinanza umana. Riprenderà l’attesa di qualcuno mi chiami da un numero anonimo e mi dica cosa fare, quando, come.
Ma se fossi negativa al tampone – che so per certo deve essere processato in 48 ore al massimo – non ci vorrebbe un secondo tampone che attesti in maniera inequivocabile che sono negativa e quindi guarita e che pertanto sono pronta per rivedere la mia famiglia e tornare a lavorare e alla normalità?
Nessuno ha risposto a questa domanda. 
Questo periodo passerà alla storia come quello in cui nessuno risponde alle domande, nessuno ha risposte adeguate, anche su cose che sembravano scontate, accertate, collaudate ormai.
Aspetto.
Aspetto che qualcuno mi dica. Anzi no, spero che NESSUNO mi dica più nulla.
E così sia.

 

Questa è la storia di una delle tante persone che sono affette da Covid e che dal dover essere isolate per quarantena obbligatoria, sono diventante “isolate abbandonate”.

Lei si chiama Genny, ed è una delle tante persone che è stata stipata nel pronto soccorso di Cosenza.
Al telefono mi parla con voce affannata, mentre tossisce forte. Il coronavirus le ha “regalato” una “polmonite interstiziale in Covid-positivo”, così recita il referto.
Quello che i suoi occhi vedono e che le sue orecchie sentono sa di film dell’orrore. Persone con ossigeno sdraiate su barelle attaccate l’una all’altra e persone invece come lei, che sono costrette a stare su una sedia, perché posto non ce n’è.

La mia domanda alla signora nasce spontanea: “e allora quelle tende che hanno messo all’esterno del pronto soccorso?

Mi risponde: “Non servono a nulla, sono solo deposito di materiale, non sono coibentate, non possono accogliere pazienti”.

Genny fa la docente, si contagia di Covid, così come suo fratello e sua figlia, che scoprirà di essere positiva da un documento ufficiale che riporta l’elenco dei positivi e che gira in rete, (senza rispetto per la privacy) e senza che nessuno si sia preso la premura di avvertirla.

La situazione della donna si aggrava, con l’ambulanza la trasferiscono al pronto soccorso, dove attende che le venga fatta una Tac, ma i tempi sono lunghi, lunghissimi, la situazione è agghiacciante, sembra un lazzaretto di manzoniana memoria. Disordine, confusione, dolore. Non si sa se quelle persone sono affette da covid-19 o da altre patologie, ormai non esiste nessun triage che possa tenere ordine tra i malati. Tutti stipati in quella stanza, tutti in attesa di ricevere quel che spetta loro di diritto, essere curati e salvati.
Tossiscono, si lamentano, stanno male … chiedono aiuto.
Forse nel terzo mondo, le persone hanno più dignità.

A Genny viene data una cura e rimandata a casa, la sua situazione non è cosi grave da restare lì, anche perché posti non ce ne sono, o meglio, non ci sono posti nelle aree adibite al caso, ma la struttura ospedaliera è vuota, i reparti sono vuoti, alcuni medici sono stati messi in ferie. Sono gli stessi infermieri che lo dichiarano ai microfoni de “La C news”, medici costretti a curare infetti e non infetti senza distinzione, senza sapere a cosa vanno incontro ogni volta che approcciano ad un malato.

Ma torniamo a Genny, che al telefono mi racconta di come dopo un periodo di cura, deve sottoporsi ancora a Tac. Chiama l’ambulanza, ma la sua saturazione è buona e allora le viene detto di restare a casa. Ma la donna deve tornare in ospedale. I sanitari del 118 allora la riportano all’Annunziata e lì aspetterà dalle 7 del mattino alle 13 quando le rifaranno l’esame diagnostico.

Prova a chiamare i Carabinieri, per chiedere di intervenire in quella situazioni così drammatica.
“Non è nostra competenza” – le viene risposto.

Il cittadino malato abbandonato, ma anche medici ed infermieri sono abbandonati, all’Ospedale Civile di Cosenza. Lavorano con turni massacranti da giorni ormai, e non sanno come gestire tutta quella gente in uno spazio così piccolo, tra disordine e confusione e stanchezza.

Questa la situazione, questo lo scempio della Sanità Calabrese e non basta più il “Manteniamo alta la guardia, state lontani e mettete la mascherina”.
Ci si ammala e serve un intervento urgente, per questa terra che non trova pace, alla mercé di un virus killer e del menefreghismo dei vertici e della politica.

Simona Stammelluti 

Il protagonista della storia (vera) è un ragazzo di 19 anni che vive a Montalto Uffugo un paese di 22 mila abitanti in provincia di Cosenza.
Cosa avrà mai di interessante questa storia? – vi chiederete.
Interessante sarà scoprire cosa lui e la sua famiglia hanno passato dopo aver scoperto che il ragazzo aveva contratto il Covid. Ma per dovere di cronaca, racconterò tutto quello che è accaduto da ancor prima, che il risultato del test risultasse positivo.
Il 19 ottobre il protagonista ha la febbre.
Siamo sui 37 e mezzo, febbre che scomparirà da sola, nel giro di  un paio di giorni.
Ma il ragazzo, che ha la mamma paziente oncologica ha paura, si preoccupa per lei e vuole sottoporsi al tampone per precauzione, ed anche perché gli servirà per far rientro a scuola.
Il medico di famiglia non ritiene opportuno segnalare il caso alla ASL perché sostiene che la febbre non è abbastanza alta.
Così il ragazzo accompagnato da un familiare, va a farsi il tampone in un laboratorio privato; il risultato glielo daranno dopo 24/36 ore.
Siamo al 23 di ottobre.
Il ragazzo nel frattempo era già senza febbre e senza nessun altro sintomo, continua così a svolgere la sua vita di sempre. Un compleanno, un pub con gli amici.
La sera del 24 ottobre, il ragazzo scopre la sua positività al Covid. 
Da premettere che prima ancora che la famiglia conoscesse il risultato di quel tampone fatto spontaneamente dal protagonista di questa storia, in paese già corrono voci inquietanti e infamanti. Su di lui e sulla sua famiglia si dice di tutto, dal fatto che fosse stato accompagnato in maniera coatta a casa dalle forze dell’ordine, alle bugie circa la positività di tutta la famiglia.
Ma torniamo ai fatti. 
Constatata la positività, si attende che si attivi finalmente il protocollo, considerato il fatto che la mamma del ragazzo, paziente oncologica, in caso di negatività dovrà assolutamente essere allontanata da casa e messa in sicurezza.
Passano i giorni, ma nessuno va a far visita alla famiglia per effettuare i tamponi.
Il ragazzo sa di essere positivo perché ha un responso virologico privato, ma ancora nessuno ha ufficializzato questa positività. Barricati in casa, abbandonati da tutti, trascorrono la loro quarantena, cercando quanto più possibile di preservare la madre, affinché non entri in contatto con il coronavirus.
Sono invisibili.
Del protocollo in caso di positività non v’è traccia. 
Nessuno si domanda cosa stia accadendo in quella famiglia, nessuno si domanda se hanno bisogno di qualcosa, se stanno bene. Ci pensano solo i familiari che supportano i loro cari, con dedizione e lucidità.
Intanto il protagonista stesso cerca di avvertire gli amici con i quali ha avuto contatti negli ultimi giorni, ma non può fare affidamento sul tracciamento della Asl, che ancora non ha effettuato nessun tampone a nessun membro di quella famiglia.
Passano 10 giorni. 
Siamo al 2 di novembre, quando finalmente mamma, papà e sorella del protagonista – che nel frattempo coscienziosamente avevano rispettato la quarantena nel pieno rispetto delle regole e del bene altrui – vengono convocati dalla Asl per quel famoso tampone.
10 giorni dopo.
Ma oltre al danno la beffa.
Dalle 8 del mattino, all’una gli viene comunicato che sono finiti i tamponi e che non potranno essere sottoposti al test. Sarà la giovane sorella a pretendere – visto che sono stati convocati – che venga fatto loro l’esame. Sono tutti negativi.
Lo sapranno solo 6 giorni dopo.
6 giorni dopo.
Per non parlare delle condizioni in cui vengono tenuti i tamponi processati e non, presso il punto Asp destinato (ma questa è un’altra storia che racconterò a breve).
La tempestività non è contemplata nel protocollo già inesistente della Asp sul territorio.
Il giorno 4 novembre anche il protagonista viene sottoposto al tampone.
Finalmente, direte!
Sì, ma deve recarsi  con le sue gambe al centro Asp che dista 12 km dal centro del paese dove il giovane risiede. Con le sue gambe, con il suo mezzo, accompagnato da suo padre.
Quindi un malato di Covid, non riceve mai a casa i responsabili del servizio tamponi, ma si sposta da solo, per avere quel che spetterebbe invece a tutti i malati di questa maledetta malattia virale.
Morale della favola, anche il protagonista riceve il risultato delle analisi dopo 5 giorni, attraverso una comunicazione telefonica che reca in se ancora dubbi. Positivo, negativo? Sembra difficile anche leggere un referto.
Intanto i compagni del protagonista, quelli che con lui avevano trascorso le ore precedenti al suo malessere, si barricano anch’essi in casa insieme alle loro famiglie, con tutte le problematiche del caso, comprese quelle lavorative, rispettando la quarantena volontaria, in attesa di ricevere una comunicazione della Asp, che gli dica cosa fare, come comportarsi, come agire.
Tutti abbandonati a sé stessi sul territorio. 
Ad oggi ancora diversi ragazzi non hanno ricevuto la visita dei responsabili Covid della Asp.
Uno di loro  – che grazie alla coscienza propria e della sua famiglia è rimasto in quarantena a casa – ha scoperto solo ieri, dopo essersi sottoposto al test il 4 di novembre, di essere positivo.
E i suoi familiari hanno provveduto privatamente e personalmente a sottoporsi a regolare tampone anti-covid.
Sul territorio ogni giorno ci sono nuovi casi scoperti per caso, perché chi ha qualche sintomo si reca a farsi un tampone rapido presso strutture private e poi si attende, si attende per giorni, per settimane che qualcuno si accorga di loro.
Non c’è il protocollo, non si attiva. 
A Montalto Uffugo non si è attivato.
Sorge il dubbio che di tutti gli organi preposti alla gestione della vicenda Covid sul territorio, nessuno sia a conoscenza delle linee guida. 
Per la serie, “Si salvi chi può” perché sennò, finisce che il mondo si dimentica che esisti, una volta che ha finito di infangare e infamare famiglie che hanno avuto rispetto per il prossimo, senza ricevere in cambio neanche quello che spettava loro di diritto.
Simona Stammelluti 

Le notizie che arrivano dalla Terra Santa sono poche e a volte anche non del tutto veritiere. Allora – come sempre faccio – mi informo al meglio prima di raccontarvi quale sia la situazione attuale in Palestina ed anche in Israele. E non c’è modo migliore per sapere cosa accade, che non sia parlare personalmente con chi quella terra la conosce bene perché la vive, perché ci lavora.

Pina Belmonte da anni, lavora come volontaria a Gerusalemme e sulla sua pelle ha vissuto le problematiche di sempre, oltre alla situazione di criticità del periodo pandemico.

Lei mi aiuta a tradurre dall’arabo i dati oggettivi della situazione e poi mi racconta dalla sua viva voce, tutto ciò che i giornali non dicono ma che invece si dovrebbe sapere, perché altrimenti si finisce per tenere la luce accesa dappertutto tranne che su quella striscia di terra perennemente in guerra e spesso dimenticata dagli uomini, ma non da Dio.

La situazione sanitaria in Israele mostra come i casi di infezione da coronavirus sono passati da 8.000 della metà di settembre a diverse centinaia alla fine di ottobre, con un blocco nazionale, che ha iniziato a diminuire gradualmente il mese scorso.

Mercoledì i ministri hanno votato per consentire la riapertura dei negozi da questa settimana, nonostante le obiezioni dei funzionari sanitari che hanno chiesto una lenta e graduale riapertura dell’economia e delle scuole.

I negozi hanno aperto domenica, con un massimo di quattro clienti alla volta e nel rispetto delle norme anti-Covid.

Tuttavia, la riapertura interessa solo i negozi  nelle aree con i tassi di infezione più bassi e che si affacciano sulla strada, escludendo quelli nei centri commerciali.

Il ministro della Salute Yuli Edelstein e il commissario uscente per il coronavirus Ronni Gamzu si sono entrambi opposti all’allentamento delle restrizioni a causa del numero del tasso di riproduzione di nuovi casi derivanti da ciascuna infezione da coronavirus.

Gamzu ha avvertito che la riproduzione dell’infezione di Israele è ben al di sopra del livello di 0,8 stabilito dal governo come livello massimo richiesto per riaprire le attività.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che sarebbe anche riluttante ad accettare le aperture, ha avvertito che il governo potrebbe riattivare alcune restrizioni se i numeri continueranno a salire.

La situazione in Palestina è diversa però.

Il rapporto epidemiologico sul Coronavirus in Palestina nelle ultime ore dice intanto che dalla città di Gerusalemme non arriva nessun dato.

Per il resto, il Ministro della Salute, Dr. May Al-Kailah ha affermato che il tasso di guarigione dal coronavirus in Palestina ha raggiunto l’87,79%, mentre il tasso di infezioni attive è dell’11,36% e il tasso di morte è stato lo 0,85% rispetto a tutte le infezioni.

Nel rapporto quotidiano sulla situazione epidemiologica del Coronavirus in Palestina, il ministro Al-Kaila ha dichiarato che giovedì si sono registrati 4 morti in Cisgiordania, ci sono 40 pazienti nelle sale di terapia intensiva, di cui 9 pazienti con respiratori artificiali.

Durante l’incontro tra il ministro palestinese e quello degli Esteri italiano Luigi Di Maio, avvenuto nei giorni scorsi,  il primo ministro Palestinese, ha chiesto all’Italia di rompere lo status quo, riconoscendo lo Stato palestinese e chiedendo all’Europa di riempire il vuoto lasciato dall’amministrazione americana, con i suoi pregiudizi verso quella terra.

Le relazioni italo-palestinesi sono sempre state forti, poiché l’Italia è sempre stata dalla parte della giustizia e del diritto internazionale.

Durante l’incontro il ministro palestinese ha illustrato come si stia lavorando per superare tutti gli ostacoli al fine di indire elezioni per ripristinare l’unità e la democrazia in terra palestinese, in modo da poter rafforzare l’interno per affrontare le sfide esterne che sono state imposte.

Il ministro palestinese ha anche chiesto di beneficiare del vaccino su cui si sta lavorando e che dovrebbe essere completato entro la fine dell’anno, e il ministro italiano ha risposto positivamente a questa richiesta.

Dopo 4 anni di posto vacante, 3 giorni fa si è insediato il Patriarca latino di Gerusalemme, un italiano, PierBattista Pizzaballa che era già amministratore Apostolico del Patriarcato Latino.

Naturalmente Israele ha un servizio sanitario diverso da quello palestinese, che ha più difficoltà nel gestire la pandemia, oltre a dover vivere sotto occupazione israeliana.

Tra l’altro In Palestina la situazione al tempo del Covid è differente da qualunque altro luogo al mondo, perché parliamo di una zona che ha problemi quotidiani anche per i semplici spostamenti, oltre che problemi di violazione dei diritti umani.

A causa della situazione sanitaria, il ministero israeliano aveva inoltre bloccato i visti.

Non si poteva rientrare in Palestina se non si aveva un posto dove stare e comunque facendo regolare quarantena.

Ma già da febbraio sono stati attuati i blocchi agli ingressi da Cina e Italia. La struttura a Gerusalemme che si occupa di assistenza di persone affette da vari tipi di disabilità, l’Hospice Sant Vincent de Paul, ha gestito al meglio la situazione. Nel momento in cui aumentavano i casi, ha provveduto a chiudere completamente la struttura per due mesi e mezzo. Nessuno usciva e nessuno entrava.

Chi lavorava lì, ha vissuto lì h24.

Lì non c’è solo una pandemia da gestire ma la vita che è da sempre difficile.

Israele ha vietato tutto alle persone che andavano a lavorare, quindi ai palestinesi, a coloro che per esempio vivevano a Betlemme. E non dimentichiamo che fuori da Betlemme, ci sono i check-point armati degli israeliani. Durante il prima lockdown Betlemme è stata dichiarata dal primo ministro palestinese “zona rossa” quindi nessuno poteva entrare o uscire.

Il “Baby Caritas Hospital” ha continuato a lavorare per assicurare assistenza ai bambini.

Tanto che il ministro  della salute palestinese ha scelto proprio il laboratorio di questo ospedale per far sviluppare i tamponi che venivano fatti in Palestina.

Nessun turista entra in Palestina (ma anche in Israele) da mesi ormai, e sono letteralmente in ginocchio, perché vivono solo di pellegrinaggi e di turismo religioso.

Non solo devono affrontare il virus maledetto, ma per un paese che vive già sotto occupazione tra le difficoltà di ogni giorno, la pandemia rende tutto più difficile.

Con l’espropriazione dei terreni palestinesi e la distruzione di case, Israele continua la politica di oppressione verso i palestinesi. Noi urliamo alla dittatura quotidianamente, per le ingiustizie che vediamo, ma in Palestina ai giornalisti viene negato di fare il proprio lavoro.

Lavorare in Palestina significa raccontare una realtà che è scomoda per Israele.

Ancora si cerca il bene della Palestina, e forse tenere accesa l’attenzione su quella terra, potrà essere una porta per la salvezza.

Simona Stammelluti 

Hanno deciso di prendere d’assalto le casette per l’erogazione dell’acqua nel territorio di Montalto Uffugo (Cs) distruggendole e portando via i soldi che erano contenuti all’interno.
Eppure i malviventi, non hanno forse tenuto conto delle telecamere che li hanno ripresi persino in volto, mentre uno di essi faceva da “palo”.
Incastrati dunque dalle telecamere che hanno ripreso volto e targa del mezzo utilizzati per fare il colpo, adesso dovranno rispondere di ciò che hanno fatto.
Hanno pensato di poter agire indisturbati e che nessuno avrebbe potuto notare nulla, ed invece per loro non è andato per come avevano previsto.
Adesso attendiamo che la giustizia faccia il loro corso e che vengano puniti per il furto e per i danni arrecati non solo alla casetta dell’acqua, ma a tutta la collettività

Troppi assembramenti davanti alle scuole cittadine. La segnalazione è stata fatta questa mattina da diverse persone, fra le quali anche l’ex consigliere Giuseppe Di Rosa e hanno spinto l’amministrazione comunale ad affrontare il problema. L’assessore Nino Costanza Scinta, in sintonia con il sindaco Miccichè, ha iniziato a contattare tutti i dirigenti scolastici della città per invitarli a contingentare gli ingressi e le uscite degli alunni, differenziandone gli orari e possibilmente anche gli accessi. Ci sono scuole, ad esempio, che hanno più accessi che possono venire aperti contemporaneamente dividendone l’uso per classi o per corso. In ogni caso si possono adottare orari diversi, anche di 15 minuti ciascuno, così da dare il tempo di smaltire il flusso in un lasso di tempo maggiore. La prossima settimana si farà una verifica per vedere quali provvedimenti sono stati adottati e che risultati hanno portato, correggendo eventuali disservizi