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Ci sono volute le due del mattino per conoscere la classifica aggiornata dopo tutte le 28 esibizioni, in una cavalcata che, ieri sera, sembrava davvero infinita.
Per fortuna ad allietare la serata una donna straordinaria, umile, brava e simpatica.
Paola Egonu con i suoi 24 anni e tutti i suoi 193 centimetri di altezza ha calcato il palco dell’Ariston con una leggiadria ed una spigliatezza davvero adorabili.
Ha presentato, si è presentata, si è raccontata ed è stata una bella rivelazione oltre che una degna compagna di viaggio per Amadeus e Gianni Morandi che al suo cospetto per tutta la serata è sembrato piccolo, ma sempre all’altezza. E proprio per ovviare ad una differenza evidente, che verso la fine della puntata, grazie ad un rialzo, Gianni Morandi ha potuto ballare un lento con Paola, che sa come stare al gioco, sa sorridere e far sorridere.
Anche il suo monologo è stato adeguato e molto incisivo. Il racconto di sé, della sua età, dei suoi sogni, delle aspirazioni, delle sue paure e dei fallimenti. Quel voler essere una donna sempre alla ricerca di un dettaglio di felicità senza forzare mai il destino e senza sentirsi mai ultima. In chiusura cita Vasco Rossi, ricorda quel suo penultimo posto a Sanremo e quelle sue parole divenute storiche per descrivere la bellezza della diversità che accomuna tutti: “ognuno col suo viaggio, ognuno diverso“.

La serata è scivolata in maniera abbastanza leggera, le canzoni – come spesso accade – riascoltandole assumono un abito diverso, le parole prendono forma, i cantanti sono più rilassati.
Alcune convinzioni circa le canzoni in gara le ho confermate.
Confermo l’ottima performance di Mengoni che rimane in cima alla classifica demoscopica e del televoto. Per lui la standing ovation del pubblico in sala.
Molto bene Lazza quarto in classifica, che regala i fiori di Sanremo alla mamma seduta in platea,  Rosa Chemical, Madame, Mister Rain che in classifica è terzo, Tananai che è quinto, Elodie è nona, e ieri sera bellissima in quel suo vestito vedononvedo.
Gradevoli all’ascolto Levante, un bel sound per i Colla zio e poi i Modà con l’unica canzone “Sanremese” in gara.
Resta il mistero del perché Giorgia abbia scelto una canzone per nulla adatta alla sua voce, che non è Sanremese e che ha un testo pressoché banale. Ma ieri elegantissima ed emozionata, ha cantato meglio della sera prima.
Tenerezza e imbarazzo per Gianluca Grignani che non regge l’emozione, forse, o forse per davvero non sente bene in cuffia, o forse quel palco è troppo per un uomo che ormai è fragile nei confronti del vivere; ferma la musica e poi, si ricomincia.

Ma a prescindere dal posto in classifica (12esimo) il cantante vince, per me, con quella scritta sulla camicia che mostra dopo essersi tolto la giacca: “No War”.
Alla fine sono questi i momenti che si ricordano della famosa Kermesse che oltre alle canzoni – il cui destino lo decreteranno le radio e gli streaming – si nutre di eventi, di ospiti, di piccoli dettagli.

E a proposito di streaming, sul palco dell’Ariston arrivano i Maneskin. Con i loro 7 miliardi di streaming, dopo aver girato il mondo, dopo essere finiti nelle classifiche più prestigiose del globo, atterrano dritti dritti sul palco di Sanremo dove hanno vinto e da dove hanno spiccato il volo, vincendo prima l’Eurovision e poi raccontandosi sui palchi americani e non solo.
Un assaggio di quello che è il loro concerto, grande energia, qualche nota sbagliata e la presenza con loro sul palco di Tom Morello, chitarrista e cantautore americano che ieri sera all’Ariston ha mostrato la sua cifra artistica. I wanna be your slave, zitti e buoni, the lonlinest ed è subito energia pura. I ragazzi sono affiatati e bellissimi.

Torna Ranieri con un pezzo carino nuovo e tre coriste e annuncia un nuovo lavoro insieme a Rocío Muñoz Morales che lo raggiunge sul palco, spigliata e per nulla diva.

Un colpo d’aria che fa calare la voce impedirà a Peppino di Capri di essere ospite nella terza serata, ma all’una e mezza di notte, sul palco arriva Alessandro Siani e il suo monologo sull’uso eccessivo del telefonino.
Ieri sera la meravigliosa orchestra di Sanremo ha reso omaggio al compositore americano Bart Bacharach, scomparso a 94 anni.
Sempre più difficile restare svegli fino alla fine, ma stasera tocca ai duetti e alle cover.
A domani.

 

Per guardare Sanremo fino alla fine servono forza e resistenza.
Un po’ perché arrivare a notte fonda per 5 serate di seguito quando al mattino suona la sveglia presto, è da eroi, ma anche perché non sempre la carrellata di canzoni è un piacere.
Quest’anno tocca ammetterlo, malgrado le rassicurazioni del patron Amadeus che giurava che fossero tutte belle, le canzoni lasciano a desiderare ed anche volendo fare uno sforzo pensando al fatto che ormai non è più il tempo della canonica canzone sanremese, con strofe e refrain, con struttura armonica e testi scritti da parolieri veri, ci sono dei momenti in cui ci si chiede come certe canzoni siano arrivate al Festival. Perché passino i giovani, le nuove leve che vivono di rap e di barre, ma dai cantanti storici e collaudati ci si aspettava qualcosa di più. Ieri sera infatti a deludere è stata proprio Giorgia, superfavorita con “parole dette male” che però non convince. Un testo banale, un musica non adatta alla sua vocalità, e così la cantante si trova ad alzare l’estensione fin quasi a gracchiare. Ben lontani dall’excursus vocale che ci ha fatto innamorare di lei in tutte le precedenti volte in cui ha calcato il palco Sanremese.
Reduci dal caos causato da Blanco la prima sera, Morandi entra sul palco con una scopa in mano, e ironizza con Amadeus sulle possibilità di eventuali ulteriori imprevisti.

Donna della serata Francesca Fagnani, giornalista bella e brava, famosa ormai per le sue interviste affilate durante la sua trasmissione “Belve” che su quel palco, elegantissima, se la cava egregiamente, anche se probabilmente l’emozione, le accelera il parlato durante la lettura, cosa che non si confà ad una giornalista che conosce bene i tempi e l’importanza della prosodia dei testi.
Sarà lei a regalare un monologo scritto con i ragazzi dell’istituto carcerario minorile di Nisida, che pone l’accento sugli errori piccoli e grandi commessi che non dovrebbero mai precludere un riscatto che tocca a tutti i giovani che hanno commesso un reato, e che ne comprendono l’errore e la gravità.
Ma non sarà la sola; a riempire il palco ci saranno anche parole toccanti sull’Iran, sul dolore e sui diritti umani che trovano sul palco di Sanremo un posto giusto, accogliente, adeguato.

A regalarlo è Pegah Moshir Pour, italiana di origini iraniane consulente e attivista dei diritti umani e digitali. Un racconto che si sofferma sulla parola Paradiso mentre dice

La parola Paradiso deriva dall’antico termine persiano Pardis, giardino protetto. Allora io vi chiedo: Esiste un Paradiso Forzato? Ahimè sì…come altro si può chiamare un luogo dove il regime uccide persino i bambini?

Ma Sanremo è canzoni e a tenere banco ieri sera tre signori che hanno fatto la storia della canzone italiana e che hanno regalato al pubblico un pezzo della loro carriera in maniera impeccabile. Morandi con Ranieri e Al Bano, hanno fatto una cavalcata canora con i loro cavalli di battaglia, mostrando una grinta e una bravura che è spiccata in una serata in cui le canzoni sono state davvero deboli, sia per sostanza che per intonazione.

L’unica “nota stonata” (giusto per restare in tema) è stata voler cantare una canzone non loro che rappresenta il pilastro della musica di sempre, l’apoteosi della canzone ben scritta che è “Il mio concerto” di Umberto Bindi. Bene l’intenzione, meno bene l’esecuzione.

E cantare dopo quei giganti non è affatto semplice ma in ogni caso la gara entra nel vivo.
Della serata – al netto della classifica parziale che vede ultimo Sethu, con “Cause perse” e primi Colapesce Dimartino con “Splash” – salvo pochissime canzoni.
A mio avviso il più bravo è stato Lazza con “Cenere”. Lui concentrato, con un brano potente, farà molto parlare di sé. Il musicista ha studiato in conservatorio e ha tutte le carte in regola per trovare il suo posto nel mondo musicale contemporaneo e Sanremo sarà per lui un vero trampolino di lancio.
Poi ho apprezzato Tananai con “Tango” (che in anno sembra aver imparato a cantare),  Madame con “Il bene nel male”, e il tanto discusso Rosa Chemical con “Made in Italy”. Tutte sonorità calate in un nuovo modo di raccontare la musica ma alle quali attribuisco buone chance di riuscita.
Il resto davvero improponibile. Di Giorgia ho già detto, sul resto c’è molto poco da dire, comprese Paola e Chiara che canta per ultime (e meno male) che ballano, manco fossero le nuove Kesler e che in tutti questi anni non hanno fatto davvero nulla per imparare a cantare. Sempre uguali a loro stesse, incastrate in un clichè ormai stantio.
Momento di appeal con l’esibizione dei Black Eyed Peas, ospiti internazionali della Kermesse, vincitori di 6 Grammy.
Da sottolineare durante la serata, Fedez che collegato dalla costa Crociere ormeggiata al largo della Sardegna, con il suo free style, prende in prestito le polemiche fatte dalla destra riguardo la partecipazione di Rosa Chemical al Festival di Sanremo e se la prende con il viceministro Galeazzo Bignami, che si mostrato in divisa nazista. Come sempre Fedez non la manda a dire e di quel dire se ne prende la responsabilità.

È ormai notte fonda quando Amadeus invita il pubblico a casa a cambiare canale

“Vi invito a cambiare canale, non è un invito per tutti. E’ rivolto ai moralisti, agli animi più sensibili, a quelli che si indignano. Cambiate canale per 7-8 minuti: noi ridiamo e voi non brontolate”

Sul palco dell’Ariston arriva Angelo Duro, comico siciliano dissacrante, che con la sua comicità ruvida e provocatoria, arriva a restare in mutande per raccontare a suo modo la famiglia, i rapporti, i tradimenti, le conseguenze.

Prima della classifica finale la Fagnani acchiappa sotto Amadeus per una delle sue interviste, ma è tempo di classifiche. In cima a tutti ancora Mengoni, nella classifica definitiva della sala stampa, ultimo Sethu.

Forza e coraggio che stasera ci toccheranno tutte le 28 canzoni in gara e che sia la volta buona che come sempre, al successivo ascolto si possano scorgere dettagli da salvare circa le canzoni che quest’anno, davvero lasciano a desiderare.

A domani.

 

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Al via la 73esima edizione del festival di Sanremo.
Quest’anno la co-conduzione insieme ad Amadeus (per il quarto anno consecutivo direttore artistico della kermesse) tocca ad un elegante, sobrio e capace Gianni Morandi che fa da contraltare ad un patron distratto, sottotono e sicuramente già stanco, che sbaglia i nomi dei concorrenti in gara (chiama Gianmaria Sangiovanni) e che si trova a gestire la maleducazione di Blanco che, ospite della serata, devasta il palco sanremese e prende a calci i fiori.
Ma andiamo per ordine.
Quest’anno ricorre il 75esimo anno della Costituzione Italiana e pertanto ad onorare la carta costituzionale scritta anche da suo padre Bernardo, in teatro insieme a sua figlia c’è Sergio Mattarella che commosso, ascolta il monologo garbato e sentito di Roberto Benigni, che si sofferma sugli articoli 11 e 21, rispettivamente il ripudio della guerra e la libertà di pensiero e parola.
E poi l’incoraggiamento non solo a leggerla e ad amarla la Costituzione, ma anche a viverla.
E sarà la meravigliosa orchestra diretta anche quest’anno dal maestro Leonardo De Amicis ad accompagnare Gianni Morandi che canterà un inno, riarrangiato e bellissimo.
Attesissima Chiara Ferragni, che reduce dalle tante offese ricevute ultimamente circa il suo fisico e la sua magrezze, sfoggia abiti provocatori che mostrano non solo ogni dettaglio del suo corpo ma che al contempo recano in sé un messaggio contro l’odio e senza vergogna.
Emozionatissima, accompagnerà i due conduttori nella presentazioni dei primi 14 cantanti in gara e nel suo momento dedicato leggerà una lettera alla Chiara bambina, quella indifesa, incerta e fragile. Commossa racconterà a quella lei ancora piccola, tutti gli errori che non dovrà commettere durante la sua vita che le riserverà comunque tante gioie e momenti importanti. Ma il messaggio primario resta sempre quello che riguarda il vivere la propria libertà senza vergogna (infatti nella prima apparizione sfoggerà un abito nero con una scialle con su scritta “pensati libera”) e a reagire contro l’odio che inevitabilmente investe la vita di ognuno.
Nella seconda parte della serata la stessa, calcherà il palco in compagnia di 4 donne che nel quotidiano si occupano di altre donne che hanno bisogno costante di aiuto. Un messaggio dunque, tutto al femminile che, visto i tempi, è sembrato assolutamente adeguato.

Ma Chiara fa anche quel che è suo, quel che riguarda il suo mondo e in diretta, mostra ad Amadeus il suo primo profilo instagram che in una manciata di minuti arriva a 500 mila followers. Selfie e dirette sul famoso social network di cui la Ferragni è regina, ed è subito ristabilito il clima di festa.

Momenti difficili durante la serata, tra un cantante in gara e l’altro. Tra il momento amarcord dei Pooh  che – orfani di Stefano D’Orazio ed insieme ad un ritrovato Riccardo Fogli canteranno all’Ariston e a milioni di spettatori in mondovisione molti dei loro successi – mostreranno però tutti gli ormai scontati limiti canori, ed un momento di imbarazzo e sgomento provocato da

Blanco che, ospite della serata, mentre canta “L’isola delle Rose” perde il controllo di sé (chissà perché?!) e distrugge completamente la scenografia del palco dell’Ariston allestita con le rose. Prende tutto a calci, e alla fine della “performance” tra il disappunto ed i fischi del pubblico in sala e le parole di Amadeus che cerca di recuperare la tragedia in atto, parlerà senza senso, dicendo che non sentiva l’audio in cuffia e che comunque si era divertito. Se è abituato a divertirsi così, penso che debba essere allontanato da qualsiasi evento pubblico; che si divertisse a casa sua. Lo stesso era già salito sul palco con Mahmood per riproporre “Brividi” canzone che lo scorso anno portò loro la vittoria della 74esima edizione del Festival di Sanremo.

Ma ora vediamo le canzoni in gara.La classifica finale che arriva all’una e mezzo di notte è quasi scontata.Tra cantanti che non deludono, nuove leve e sconosciuti, la solidità canora di Mengoni diventa una certezza e dunque si piazza in cima al primo posto con la sua “Due vite”. Al secondo posto Elodie con “Due” bellissima e fascinosa in quell’abito tutte piume nero che copriva una mise minimal attillata. Terzi i Coma_cose. A seguire Ultimo, Leo Gassmann, Marta Sattei, Colla Zio, vincitori di Sanremo Giovani, che a mezzanotte inoltrata portano una ventata di freschezza con la loro “non mi va”.

E poi ancora I cugini di Campagna che sembrano rimasti incastrati negli anni andati, Mr Rain che con la sua “Supereroi” porta sul palco dell’Ariston i bambini che cantano insieme a lui e che sinceramente ho trovato molto carini, carichi di quel messaggio di speranza in un momento così terribile per il mondo.
Negli ultimi posti della classifica Gianluca Grignani (che ci prova ma non ce la la fa), i giovanissimi Gianmaria e Ariete, penultimo Olly (in giacca smoking rosa)  ed ultima Anna Oxa, che uscita forse dal suo mondo, è sembrata anacronistica malgrado la sua rinomata forza vocale.
Parrucchieri a parte, le mise dei cantanti in gara erano davvero improponibile e fatta eccezione per Elodie ed una superfashion Elena Sofia Ricci, iper l resto tutti bocciati, compreso Mengoni che di solito è impeccabile nell’outfit.
In apertura, qualche minuto di silenzio per rispetto al disastro avvenuto due giorni fa in Siria e in Turchia, ma lo spettacolo deve andare avanti e allora si va … verso la seconda puntata di stasera.
E siccome ci aspettiamo di tutto, conviene rispolverare il jingle “perché Sanremo è Sanremo pa-ra-rà”

Morti di fame e di freddo.

Tra gli 8 cadaveri trovati dalla guardia costiera nella notte tra il 2 e il 3 febbraio al largo di Malta anche una donna incinta. Erano partiti il 28 gennaio dalla Tunisia. Portati in salvo in 42, sono stati trasportati all’hotspot di Lampedusa.
Ma oltre agli 8 morti ci sono anche altre due vittime: un neonato scivolato in mare dalle braccia della madre.
Così Salvatore Vella, procuratore di Agrigento ai microfoni della Rai:

Questa giovane donna durante la navigazione aveva in braccio questo piccolo  di 4 mesi. La donna si è accasciata, il marito e gli altri migranti l’hanno soccorsa, ma lei era morta e il bimbo che aveva in braccio, di notte, scivola in mare e muore”

La seconda vittima è un uomo che sedeva sul bordo della barca, sfinito dal freddo e dal digiuno, è caduto in mare. I corpi ritrovati sono di 5 uomini e di 3 donne, una delle quali in avanzato stato di gravidanza. Tutti morti verosimilmente per ipotermia, per freddo, perché di notte in mare fa freddissimo, oppure – come dice ancora il procuratore Vella – per stenti, considerato che avevano finito acqua e viveri da qualche giorno e stavano bevendo acqua di mare.

 

Una emozionatissima Liliana Segre su Rai 1 insieme a Fabio Fazio per celebrare il giorno della Memoria con una serata “per non dimenticare”.
Il racconto della sua terribile e dolorosa esperienza nei campi di concentramento di Birkenau e Auschwitz, dal binario 21, della stazione di Milano, nella pancia, nel fondo della stazione da dove partivano i treni carichi di ebrei che divenivano deportati. Oggi in quei luoghi vi è un Memoriale, che tutti dovrebbero visitare. Appena si arriva in quel luogo vi è un grande muro con la scritta “INDIFFERENZA” che è la parola chiave scelta proprio da Liliana Segre e che rappresenta proprio il sentimento patito dagli ebrei; l’indifferenza della gente nei confronti di ciò che stava accadendo durante tutto il periodo, non soltanto durante la deportazione e che oggi non dovrebbe più esistere.
Il senso e l’importanza della memoria è stato il filo conduttore della serata durante la quale la senatrice a vita ha raccontato alcuni dettagli della sua prigionia nei campi di concentramento, della sua vita di ragazzina in un posto assurdo, nel quale la vita o la morte erano solo affidati al caso.
Ad accompagnarla nel racconto Fabio Fazio, che con tanta delicatezza le ha posto delle domande, lasciando alla Segre l’emozione travolgente del racconto. La sua salvezza dovuta al fatto che conosceva la parola “solo” in tedesco, la “fortuna” di essere stata scelta come schiava per lavorare nelle fabbriche, salvandosi dalla camera a gas, la lunga marcia della morte lungo la quale ebbe la possibilità di vendicarsi verso coloro che erano stati i suoi aguzzini, e poi la scelta di non lasciare spazio all’odio e di riprendersi la sua vita, che poi ha vissuto fino ad oggi in pace.
E poi quando Fabio Fazio le ha chiesto come riuscisse a superare le notti, nei campi di concentramento, Liliana Segre ha risposto: “Ero giovane ed ero forte. La notte ero fortissima. Questo voglio dire ai giovani, siate forti, fortissimi“.
Toccante il racconto della “tragedia” – come lei stessa l’ha definita – di quando facendo ritorno a casa, da quella che restava la sua famiglia, i nonni e gli zii, non solo tutti stentarono a riconoscerla perché differentemente allo scricciolo che era quando era stata portata via, era grassa, brutta e rozza, ma soprattutto perché tra le tante cose che avrebbero potuto chiederle, le domandarono solo il perché fosse diventata così grossa e se fosse ancora vergine.
Si commuove, Liliana Segre raccontando come in quei 4 mesi, dall’inizio di maggio quando fu liberata, alla fine di agosto, quando fece ritorno a casa, passò il suo tempo a mangiare, e una volta arrivata in città un signore le fece l’elemosina.
Durante la serata le voci di Pierfrancesco Favino e di Paola Cortellesi, hanno declamato un monologo sull’odio e la famosa poesia di Primo Levi, tratta da “Se questo è un uomo”. Ascoltare quelle parole, in un giorno come questo, quell’invito a raccontare e tramandare quell’orrore affinché non si dimentichi, è stato molto toccante.
Il conclusione, in onore di Liliana Segre e di tutte le vittime dell’olocausto, il coro del Teatro alla Scala di Milano ha intonato il “Va pensiero” di Verdi.
Una rosa bianca donata alla senatrice a vita e la forza di una testimonianza che è simbolo di come la forza di chi ha vissuto quell’orrore, sa divenire linfa, affinché non accada mai più.

 

Matteo Messina Denaro è ora nel carcere de L’Aquila a regime carcerario del 41 bis.
E in queste ore deve pensare alla linea difensiva che dovrà attuare nei processi e negli innumerevoli interrogatori che lo attendono, considerati tutti i capi d’accusa.
Ebbene, ha deciso di nominare come suo legale, sua nipote Lorenza Guttadauro, avvocato penalista e consanguinea non di uno, ma di due boss mafiosi. La legale infatti, che esercita in uno studio di Palermo, è figlia della sorella del boss, Rosalia Messina Denaro, e di Filippo Guttadauro, arrestato e condannato per associazione mafiosa e figlio di uno storico capobastone. Il nonno paterno della legale è infatti lo storico boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro. La legale è inoltre sposata con Girolamo “Luca” Bellomo, già condannato per crimini mafiosi e che sarebbe stato uno dei pupilli  di Messina Denaro, oltre che finanziatore della sua latitanza.

Ad Adnkronos, la legale con la quale la nomina non è ancora stata formalizzata ha detto:

Sono rimasta sorpresa anche io dalla nomina ricevuta da Matteo Messina Denaro, le dico la verità, non me l’aspettavo

Gli applausi che si sono sentiti quando è stato arrestato sono probabilmente significativi di una terra che ha voglia ancora di riscatto, della volontà di liberarsi dalla prepotenza mafiosa, della privazione di libertà in tutti i campi, gli stessi dove la mafia ogni giorno si infiltra diventando invisibile.
Dopo l’arresto di stamane del super-latitante Matteo Messina Denaro, viene da pensare che alla fine (meglio tardi che mai) la giustizia arriva, si palesa e dunque non esiste l’impunibilità e l’invincibilità della mafia.
Giovanni Falcone era solito dire: “la mafia è un fenomeno umano e come tale ha avuto in inizio e avrà anche una fine”.
La mafia ha però sempre giocato sul mito della invincibilità, ma oggi con questo arresto esemplare, questo mito non c’è più.
Ma ci sono voluti trent’anni prima che questo giorno arrivasse perché il mafioso gode dell’appoggio di tutto un ambiente che lo favorisce; Matteo Messina Denaro era considerato un “benefattore” nella sua zona di competenza, e quindi nessuno lo avrebbe mai tradito. Probabilmente il boss ha preferito non diventare il capo assoluto, non un “capo dei capi” (come fu Totò Riina) proprio per mantenersi nel suo territorio, con i suoi affari per poter garantirsi al massimo questa latitanza. C’è voluta una malattia grave per spingerlo verso Palermo, per curarsi in una delle migliori cliniche private palermitane, sotto falso nome (Andrea Bonafede), per poter avere dunque una falla, nella sua rete di protezione.
Ma chi l’ha curato, sapeva?
Le ipotesi – come ha detto Piero Grasso – sono due: o c’è un favoreggiatore che l’ha favorito per farlo curare, o c’è un traditore che lo ha tradito per farlo arrestare. Il favoreggiatore se c’è, prima o poi verrà scoperto, il traditore non lo scopriremo mai.
Arrestato quest’oggi mentre faceva colazione, durante una brillante operazione che non ha coinvolto nessuno all’interno dell’ospedale; i carabinieri in borghese – che in un primo momento hanno fatto fatica a riconoscerlo, che non erano sicurissimi che fosse lui – lo hanno preso a braccetto dicendogli “venga con noi, le dobbiamo parlare” e lui ha detto subito detto “sono Matteo Messina Denaro”. In ambito mafioso chi ti avvicina non puoi sapere subito se sono forze dell’ordine o avversari ed è per questo che ha subito detto il suo nome, e una volta capito che lo stavano arrestando non ha opposto resistenza.
Matteo Messina Denaro sa tante, tantissime cose del periodo stragista.
È stato lui uno dei componenti del commando che era stato mandato da Riina nel febbraio del ’92 a Roma per seguire, pedinare e uccidere Falcone con armi comuni mentre era al ristorante. Quell’attentato non andò a buon fine perché ci fu un errore di ristorante. Il commando andò al ristorante “La matriciana” al quartiere Prati, mentre Falcone andava spesso al ristorante “La carbonara” a Campo dei Fiori, dietro il ministero della giustizia. Spesso finendo tardi al ministero, liberava la scorta e faceva due passi a piedi. Giovanni Falcone a Roma si sentiva sicuro.
È stato il figlioccio di Riina, cresciuto sulle sue ginocchia, da lui ha imparato ad uccidere, ne  ha custodito e ne custodisce i segreti e le confidenze. Condannato per essere tra i mandanti degli attentati mafiosi avvenuti tra il 1992 2 il 1993. Quindi la strage di Capaci, di Via D’Amelio, gli eccidi di Roma, Firenze e Milano. Ha compiuto tredici omicidi tra cui quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido nel 1996.
Messina Denaro era proprio il preferito di Riina, quando i corleonesi si presero Palermo.
La domanda che in molti si stanno ponendo in queste ore è se Messina Denaro parlerà. Chi conosce bene lui e l’ambiente mafioso (parliamo di magistrati) pur sperandolo, ritiene che non lo farà, considerato il fatto che i grandi capi di Cosa Nostra non hanno mai parlato. Provenzano e Riina si sono portati segreti nella tomba.
E chissà se avrà mai un rimorso di coscienza, per tutto quello che ha ideato e ha contribuito a provocare, mettendo da parte l’omertà mafiosa. Forse allora potrà raccontare tutti i dettagli delle stragi, tutti i contatti che ha avuto insieme a Bagarella per tutte le stragi commesse.
Si dice che lui sia stato quello più “acculturato” rispetto ai suoi pari grado; infatti era lui ad individuare i beni culturali ed artistici da colpire per incominciare ad avviare le trattative con lo Stato.
Se diventerà un collaboratore di giustizia, probabilmente avverrà perché ha un pentimento intimo, non per avere dei benefici.
Per Piero Grasso non è tipo da utilizzare la legge dei pentiti.
Ma la mafia non è finita con questo arresto, continua a tramare nell’invisibilità, tra traffici e profitti.

Il boss Matteo Messina Denaro, ex primula rossa è al momento presso la caserma dei carabinieri di San Lorenzo di Palermo. In seguito sarà trasferito presso una località segreta.
Arrestato durante un blitz questa mattina poco meno di un’ora fa, un blitz condotto da centinaia di carabinieri del Ros, del Gis e del comando territoriale della regione siciliana, coordinati dal procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia.
Al momento dell’arresto, il boss stava facendo colazione nel bar della struttura sanitaria dove si stava sottoponendo a delle terapie per curare il cancro che lo aveva colpito un po’ di tempo fa. All’uscita dalla struttura sanitaria del boss con le forze dell’ordine c’è stato un applauso dei palermitani che si trovavano all’esterno della clinica La Maddalena.Trent’anni di latitanza, durante i quali il boss ha avuto fidati luogotenenti di cosa nostra, la cerchia familiare che ha garantito questa lunga latitanza; un esercito che negli anni è stato decimato dai tanti blitz delle forze dell’ordine.

Figlio di un padre boss mafioso, amante del lusso, ha ordinato stragi, ha fatto profitti illeciti;

La notizia dell’arresto arriva a trent’anni dall’arresto del capo del capi, Totò Riina che avvenne il 15 gennaio del 1993.
Le ultime notizie arrivano dal generale di divisione Comandande dei Ros Pasquale Angelo Santo che ha condotto il blitz:

Un lavoro congiunto tra polizia di stato e carabinieri. La cattura di Matteo Messina Denaro ha una importanza storica. Era l’unico stragistra rimasto in libertà.

La notizia apre un anno bellissimo per la lotta alla mafia. I latitanti non sono dunque invincibili come si sentono.
Una grande botta alla mafia, anche se la mafia non finisce con questo arresto.
Arrestare Matteo Messina Denaro nel cuore del suo territorio è un segno importante.
La procura di Palermo in questi anni ha effettuato centinaia e centinaia di arresti, tra cui i fratelli e la sorella di Matteo Messina Denaro, sono in carcere, hanno sequestrato e confiscato beni, ma mai nessuno di loro lo ha tradito. Una rete di favoreggiatori che purtroppo “amava” questo uomo. Questo arresto, svelerà finalmente il volto di questo uomo, che ha traghettato la mafia stragista di Totò Riina in una mafia imprenditoriale ed invisibile che oggi inquina l’economia e la politica.

 

 

Mi sono presa un po’ di tempo per pensare e ripensare a questa vicenda.
Perché sono una giornalista che dovrebbe raccontare la cronaca ma anche una madre che fa i conti tutti i giorni con quel ruolo assai difficile e che ha come unico obiettivo, il bene dei propri figli.
Alla luce di questa mia ultima affermazione viene da domandarsi dove risieda il bene per i propri figli, quando si agisce come hanno agito quei genitori che a seguito del gesto gravissimo ed ignobile di quegli studenti che hanno “sparato” contro la prof di scienze, hanno fatto ricorso (vincendolo) per far annullare la sospensione (giusta) ai loro figli.
Ma facciamo un passo indietro.
È l’11 ottobre quando, dei ragazzi del primo anno (parliamo dunque di ragazzi di 14 anni) dell’Istituto Tecnico Viola-Marchesini di Rovigo (se fosse successo in Sicilia si sarebbe detto che quei ragazzi vivono in una terra di mafia, ed invece vivono e fanno i bulli al nord) creano un danno alla professoressa di scienze Maria Cristina Finatti (alla quale va tutta la mia solidarietà sempre) sparandole contro con una pistola ad aria compressa, ferendola alla testa. Tutto questo mentre un altro alunno filma la scena per poi postarla sui social (TikTok che è la negazione assoluta di ciò che può essere la cultura) allo scopo di fare visualizzazioni, followers e dunque avere una qualche notorietà.
Prima di addentrarci in tutte le conseguenze di questo gesto, proviamo ad analizzare tutte le cose sbagliate fino a questo momento.
Ragazzi 14enni entrano in classe con cellulari (che dovrebbero essere spenti e riposti appena entrati) e con una pistola ad aria compressa, con uno scopo ben preciso. Intanto dovremmo domandarci perché un 14enne possiede una pistola ad aria compressa, chi gliel’ha comprata e perché.

La prof denuncia tutti e 24 gli alunni, considerato che chi non prende le distanze da quella condotta, è complice.

Il 18 ottobre tra l’altro il consiglio di classe dispone la sospensione di 5 giorni  per lo studente che aveva sparato e altrettanti per quello che aveva ripreso la scena con il cellulare, due giorni invece per il proprietario della pistola e per l’alunno che l’aveva poi lanciata dalla finestra nel tentativo di sbarazzarsene. Punizioni decise ma mai attuate. Il motivo? La famiglia di uno dei giovani coinvolti ha presentato un ricorso interno alla scuola e il provvedimento è stato annullato: pare vi fosse un errore nella stesura del testo della sospensione.

L’attenzione però a mio avviso non è sull’annullamento del provvedimento (può accadere per innumerevoli motivi o vizi di forma), ma sulle motivazioni che spingono dei genitori a fare ricorso.
Altro che “vizio” c’è in questa condotta.
C’è una mancanza sostanziale nel ruolo di chi deve educare al rispetto, al rispetto delle regole e del ruolo di colui o colei preposto all’insegnamento e non solo. Perché il gesto sarebbe stato altrettanto grave se fosse stato commesso contro un altro compagno, un collaboratore scolastico, o un passante per strada.
C’è questo lassismo verso errori che hanno l’aggravante di essere premeditati, che sono incastonati in azioni che vengono studiate per altri scopi, che ledono non solo nel corpo ma anche la dignità altrui. L’educazione è un bene fondamentale per la crescita dei ragazzi e della società, e la mancata punizione, sostituita invece con quel ricorso, è la spia di un percorso formativo familiare che si è interrotto in maniera grave e forse irreparabile.
Dov’è finito il genitore che insegna il rispetto perché anch’egli rispetta il ruolo altrui?
Dov’è l’esame di coscienza da instillare nel giovane che in casi come questo non capirà mai di aver sbagliato?
Dov’è la punizione che serve a tenere alta l’attenzione su ciò che non si deve mai fare?
I giovani a cui si lascia fare qualunque cosa, se non messi davanti alle proprie responsabilità e alle conseguenze delle loro azioni, cresceranno con l’idea che possono fare tutto, tanto non esistono conseguenze.
Cosa c’era di sbagliato in quei 5 giorni di sospensione?
Erano giusti, quei giorni di sospensione. Soprattutto se in quei 5 giorni, i ragazzi fossero stati privati di quei mezzi che permettono loro di sentirsi potenti, importanti, “seguiti”. Sarebbero dovuti essere 5 giorni di studio, di riflessione, di faccende domestiche e di consapevolezza. Ma non può esserci consapevolezza a 14 anni se qualcuno preposto ad indicare la strada, ad insegnare cosa sia giusto e cosa no, non ne ha a sua volta. Perché dubito che quei genitori abbiano consapevolezza del danno che hanno procurato ai loro figli, vincendo quel ricorso.
Non si può rimettere a posto nulla, se non si applica la formula “chi rompe paga”, chi sbaglia, in qualche modo paga.
È fondamentale tenere in piedi quei sentimenti portanti, quei princìpi intellettuali e morali che mettono in correlazione i giovani con gli adulti, che sottolineano i ruoli, che creano empatia, che tengono in piedi le regole e il rispetto per esse.
Sarebbe interessante interrogare quei genitori e chiedere loro perché lo hanno fatto, perché hanno firmato quel ricorso, perché non hanno voluto quella sospensione; anche senza sospensione, anche se tutti faranno finta di niente, i figli restano dei maleducati, irrispettosi, bulletti irriverenti.
La “non sospensione” non lava via la colpa, anche a fronte delle mancate scuse all’insegnante.
Ma forse i genitori si sono sentiti – o forse dovrei dire si sentono – sotto esame, come se qualcuno avesse voluto “sospendere anche loro”, come se quella sospensione volesse giudicare la loro condotta.
Non era per loro, la sospensione, il giudizio; ma un esame di coscienza non farebbe loro male.
Io da madre, mi sarei sentita mortificata, delusa ed anche sconfitta.
Perché i comportamenti dei nostri figli sono un po’ la bussola, la cartina tornasole in quel mestiere così difficile che è quello di genitore. Non abbiamo libretti di istruzione, ma abbiamo una “sospensione” a dirci, forse, che qualcosa è da rifare.
Una bella lezione non guasterebbe.
Insegnare loro per esempio a gestire le emozioni, a fare qualcosa per gli altri, a vivere i propri anni senza la pretesa di possedere un potere che è solo figlio di ignoranza e di ignominia.