Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 2 di 94
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La nuova Commissione Pari Opportunità voluta dal Consiglio Comunale attuale , ha modificato prima lo Statuto che prevedeva solo componenti di sesso femminile, ha atteso la modifica dalla Gazzetta Ufficiale e ha proseguito con le modifiche, modifiche di Regolamento per il funzionamento della Commissione Pari Opportunità al comma 2 art. 4 ” Composizione – Formazione e Durata” approvate con delibera del Consiglio Comunale n. 34 del 09/05/2022;
Che prevedono una componente madre caregiver, in linea con le esigenze delle famiglie con disabili, le quali madri spesso sono costrette ad abbandonare il lavoro per dedicarsi completamente al figlio disabile; abbiamo inserito uomini, tra i giovani padri e un componente della terza età, inoltre n 2 componenti in rappresentanza della comunità LGBT.
Una Commissione Pari opportunità tra le più aperte alle esigenze attuali, a garanzia di chi spesso nella società ha scarsa considerazione e a difesa dei diritti di categorie più deboli, intendendo le
Pari opportunità indistintamente tra uomini e donne così come sancisce la nostra Costituzione all’art. 3 : “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso…”
Il nuovo Regolamento per la Commissione Pari opportunità, con i pareri positivi dei responsabili di P.O. di competenza è stato votato all’unanimità dal Consiglio Comunale , attendiamo di raccogliere dunque le candidature per procedere con la formazione dei componenti alla costituzione della stessa Commissione.

L’ho visto solo ieri sera. Tardi rispetto a Venezia80 e tardi rispetto a quando è uscito nelle sale. La sfida tra “Io capitano” di Garrone e altri film in sala è stata maldestra. “Io capitano” non può competere con altro, eppure, la stragrande maggioranza di chi si è recato al botteghino, ha scelto altro.
Ha perso, dunque, Garrone?
No. Garrone con il suo film ha vinto tutto, sotto tutti i punti di vista e quello che racconta è meritevole più di una considerazione.
Con molta probabilità a non andare a vedere “Io capitano” saranno stati tutti quelli terrorizzati dalla possibilità che il proprio modo di concepire il migrante potesse virare in altre direzioni o semplicemente chi non è pronto a fare i conti con la propria coscienza, sempre che se ne abbia una.
Garrone non ha nessuna intenzione di convincere chicchessia, di raccontare in maniera documentaristica la storia cruda e crudele dei migranti; lo fa a modo suo, e quel “a modo suo” è un registro perfetto, una storia forse come tante storie, ma che mostra dettagli che difficilmente si guardano da così vicino; e poi il finale, quello che per alcuni ha reso il film non bello al 100 % e per altri invece è stato un “soffio di vento che muove le vele”, un lieto fine degno di una storia che è una favola che per alcuni dettagli, si sovrappone perfettamente alla vita vera, fin troppo vera.

Un film interamente in lingua originale con sottotitoli, una fotografia perfetta, la scelta dei primi piani, che puntano spesso sugli occhi dei protagonisti e poi il racconto. Un racconto fatto “da dentro”, infatti questo film non è una cosa “che accade” ma “che ti accade”, perché sei dentro, empatizzi con i protagonisti, soffri e senti tutta la crudeltà degli eventi.

È la storia di due adolescenti, come i figli di molti di noi, con gli stessi sogni, meno mezzi ma lo stesso sguardo puntato sulla possibilità di avere una opportunità che sia adeguata al proprio talento. Una storia di realtà apparentemente normali, in luoghi dove si trova anche il tempo per sorridere, ballare; una apparente normalità che reca in sé gioia e dolore, e poi il rapporto madre figlio, fratello sorella. Questo attaccamento familiare è molto spiccato, così come spesso viene fuori dai racconti documentaristici. Una normalità dunque, ed è qui che Garrone compie il primo miracolo. Entra nella comunità senegalese, ne scorge gli usi e i costumi, i dettagli architettonici, i colori, i suoni, i sorrisi, la vita di tutti i giorni, fatta – per i protagonisti – di scuola, musica, youtube, svago ed anche lavoro nero; quel lavoro nero che permetterà ai due ragazzi di disporre di una somma di denaro che possa portarli in Europa, per rincorrere un sogno.

Le paure, i dubbi; la paura che atterrisce e i dubbi che si fanno certezza.
Su tutto l’Amore, nelle sue più svariate forme.
Garrone racconta gli animi, la capacità di empatizzare con il prossimo, la forza dello stare “dalla stessa parte”, il sostegno reciproco.
Ma nella storia di Seydou  e Moussa un lungo, tortuoso ed estenuante viaggio, che nulla avrà a che fare con la loro idea di viaggio. Una vera e propria odissea, che attraverserà terre e pericoli, dolore e sofferenza, paura e a tratti rassegnazione.

Possiamo solo immaginare quello che sono costretti ad affrontare i migranti prima di salire sulle carrette del mare che non sempre arrivano a toccare terra. Garrone porta lo spettatore in quel viaggio, mette tutto davanti alla telecamera che cammina in ognuno di quei passi a volte stanchi fino allo sfinimento; attraverso luoghi, sabbia del deserto, notti insonni e torture nelle prigioni libiche.

Quello che si scopre dal film è che tutti coloro che, per motivi diversi decidono di partire, portano con se una somma di denaro che non avranno più una volta arrivati al momento di prendere il largo. Esiste un sistema mafioso, una sorta di associazione a delinquere che scandisce tutte le fasi del viaggio dei migranti, che sono concatenati e mirati a togliere tutto a quelle persone che vedono le proprie speranze affievolirsi passo dopo passo.
È il racconto di migranti che – questo poco si sa – sono perennemente ostaggio di qualcosa o di qualcuno.

Garrone punta la cinepresa sui cadaveri che restano lì, dove nessuno potrà più trovarli, coperti dalla polvere del deserto, o dentro le sale delle torture dalle quali in pochi escono vivi. Molte delle persone che sopravvivono alla prigionia spesso vengono venduti come operai, muratori, idraulici al servizio di signori che di essi fanno l’uso che vogliono e che solo talvolta li liberano pagando loro l’ultima parte del viaggio.

Non ti domandi mai per tutta la durata del film perché quel titolo “Io capitano”. Lo scopri negli ultimi 20 minuti di un film che ne dura 120. Seydou, il ragazzo sedicenne pieno di sogni, diventa “lo scafista”, colui che guiderà senza neanche saper nuotare una imbarcazione sgarrupata, carica di anime che dovrà proteggere e portare in salvo, proprio come fa un vero capitano.

Il lieto fine (spoiler) è il compimento di una storia che ha come scopo quello di mettere insieme piccoli tasselli di vita, che a volte sono spietati, ma che quel lieto fine lo meriterebbero sempre, senza però averlo. Una scelta del regista, una scelta di chi nella pellicola ha saputo raccontare tutto con Amore, compreso l’amore.

Bravissimi gli attori protagonisti, che hanno affrontato questa esperienza in maniera pulita, autentica, con la veracità di chi sa che può farcela, ma che per farcela deve lasciarsi guidare.
Ma Garrone fa una splendida costruzione anche di personaggi secondari, che sono così caratterizzati che non passano inosservati. Personaggi messi lì al fine di raccontare con le loro assurde dinamiche, quella storia. Sono tutti gli uomini che in qualche modo provano a dissuaderli e al contempo ad incoraggiarli. Il ciabattino, l’uomo dei passaporti, il farmacista. Tutti dettagli mai a caso.

Ma la critica di un film merita una critica, e dunque:
Quel finale poteva essere altro, ed io un altro finale l’ho immaginato e se così fosse stato non mi sarebbe piaciuto. Molti lo hanno criticato, ma in realtà è il compimento di quella storia, è il finale che chiude il cerchio, che si distacca dalla realtà quel tanto che basta per recuperare le caratteristiche filmiche; perché l’ispirazione che ha mosso l’idea del film, maturata nelle storie vere con le quali Garrone è entrato in contatto, si solleva, come le immagini oniriche che accompagnano il protagonista, e che fanno da controcanto alla disperazione di una notte troppo buia che sembra non finire mai.
L’unica forzatura che ho trovato, forse per una esigenza di copione, è la capacità dei due protagonisti di ritrovarsi dopo essersi dovuti separare. Si ritrovano, alla fine del viaggio, prima del finale.
Ma a cucire tutto alla fine l’Amore.
L’amore della mamma di Seydou, un amore talmente forte e totalizzante che la porta a rimproverarlo con così tanta veemenza, per dissuaderlo dall’idea di un viaggio della fortuna, pericoloso e imprevedibile.
L’amore che il ragazzo mostra per la donna che nel percorso estenuante a piedi nel deserto resta indietro, non ce la fa più e chiede aiuto. E lui prova ad aiutarla, rischiando di restare indietro e di morire anch’egli in quel niente, così come muore quella donna, tra le sue braccia.
L’amore del padre di famiglia che dopo le torture nelle prigioni libiche lo accoglie in un abbraccio, lo protegge, lo tiene con sé, se ne prende cura proprio come se fosse suo figlio.
L’amore di Seydou nei confronti di quel cugino che vuole rivedere, mentre vive la sua vita durante quel viaggio nell’unico desiderio di riabbracciarlo.
L’amore di Seydou capitano che seda gli animo a bordo della sua barca, che incoraggia a resistere la donna che sta per mettere al mondo un bimbo nel bel mezzo del mar mediterraneo.
E poi l’amore che dentro questo film volerà agli Oscar, premio che forse non vincerà ma che resterà impigliato per sempre nel cuore di chi non guarda ai migranti come coloro che vengono a rubarci qualcosa o a delinquere, ma come uomini e donne che hanno una vita e dei sogni che sono identici a quelli di ognuno di noi, ma che vivono un perenne svantaggio che a volte si annulla solo nella morte, che nel film di Garrone però, non è la fine di tutto, ma la forza di un pensiero che sopravvive anche al dolore.

 

 

 

 

Ci risiamo. Tutte le volte la stessa storia. Il fatto che siano persone famose non autorizza la massa a criticare, sputare veleno, giudicare.

Il fatto che una persona famosa scelga di raccontare quello che gli sta accendendo e le scelte intraprese non autorizza i fan (o i detrattori) a esprimersi in commenti ignobili, pieni di odio e di deliri di onnipotenza che in realtà recano in sé un analfabetismo emotivo e  funzionale.

Nel mirino degli stupidi e livorosi a questo giorno è finito Tiziano Ferro che ha annunciato di essersi lasciato con suo marito. Che poi lo ha fatto anche per spiegare perché non potrà onorare degli impegni presi in Italia: deve prendersi cura dei suoi figli in questo momento doloroso della sua vita e non può portarli con sé.

Ora, se non c’è “la donna di turno” con cui prendersela (perché se una coppia scoppia la colpa nella coppia etero è sempre della donna) allora prendiamocela con i gay! Tutti e due, su, tanto “sono loro che per loro stessa natura si prestano alla flagellazione mediatica degli omofobi”.

È aberrante leggere commenti di chi li accusa di essersi lasciati “troppo presto”, come se tra etero non ci si lasci dopo 4 anni.

E poi le critiche piene di odio contro la scelta dell’adozione della coppia, perché gente che non sa manco cosa sia per davvero l’utero in affitto, si permette di criticare, accusate, giudicare scelte altrui. Io vorrei vedere le loro di scelte, le loro di vite, le loro di schifezze, senza avere i riflettori addosso.

I figli delle coppie omogenitoriale vivono le stesse situazioni dei figli delle coppie etero.

La separazione – legittima e a volte necessaria perché consapevole – può fare soffrire un figlio tanto quanto vedere e avvertire che i genitori non si amano più. Ma questo accade sempre, non “di più” se ci sono due mamme o due papà.

C’è in giro tanto odio. Ma non è solo quello.

C’è in giro tanta ignoranza. Una ignoranza radicata, così tanto radicata che non solo è sempre più difficile sradicare, falciare, annullare, ma che diventa ogni giorno di più cattiveria.

Tabucchi diceva che l’ignoranza non è un vuoto da riempire, altrimenti sarebbe facile sconfiggerla; basterebbe riempirla di cultura, di sapere, di gentilezza. L’ignoranza è un muro, che ti tocca buttare giù o scavalcare. Immaginatela, la fatica di fare questo.

L’ignorante (omofobo) crede che l’omosessuale debba “scontare” la sue scelte e il suo essere e pertanto non può agire secondo il suo sentire, ma deve seguire “la retta via”. Come se la coppia omosessuale sia immune ai problemi, alle difficoltà emotive e non, o all’amore che finisce. Qui siamo alla follia pura.

Vorrei ricordare che ci sono coppie che durano una sola stagione e sulla carta (e solo sulla carta) invece, durano per tutta la vita, uniti da mutui da pagare e debiti senza fine. E continuano a vivere in maniera tossica rapporti che degenerano ogni giorno di più. Però criticano le coppie che onestamente si lasciano.

Poi la domanda regina è stata “chi deve pagare gli alimenti a chi”.

Se non facesse così tanto schifo tutto questo, direi che queste persone che si esprimono in taluna maniera, mi fanno pena.

Nelle coppie omosessuali succede quello che succede tra esseri umani. Tutto qui. Fatevene una ragione. Ci si ama, non ci si ama più, ci si lascia, si crescono i figli con amore anche da separati.

Tiziano Ferro con la stessa delicatezza con cui parlò del suo amore per l’uomo che poi divenne suo marito, oggi parla della separazione da Victor.

Mi domando ancora (perché non mi capacito) come si faccia a mettere bocca nella vita e nelle scelte degli altri.

Perché imparare a tacere, se non si sa empatizzate, dovrebbe essere una regola di buongusto, oltre che di buonsenso.

Sembrerebbe l’ennesimo colpo di scena nella lunga storia giudiziaria che dal lontano 18 novembre del 1989 è alla ricerca del responsabile della morte del calciatore Donato Bergamini, deceduto a Roseto Capo Spulico. Che non fu un suicidio ormai è certezza, e allora la verità sembrava essere davvero vicinissima. A processo, l’allora ex fidanzata del calciatore Isabella Internò, imputata con l’accusa di omicidio volontario, in concorso con ignoti; un processo che mira a far luce, una vota per tutte sulla morte del calciatore.

La notizia del giorno è che l’imputata, non si sottoporrà ad esame (non testimonierà in aula) ma – fanno sapere i suoi avvocati Angelo Pugliese e Rossana Cribari – la stessa Internò rilascerà dichiarazioni spontanee prima della fine del processo.

Non stiamo qui a fare supposizioni circa questa scelta, però una considerazione viene spontanea.

Scelta legittima, ci mancherebbe, ma così facendo appare “menomato”  lo spirito del contraddittorio, su cui si fonda il nostro processo penale.

Ci troveremo dunque, davanti ad una sorta di monologo che non avrà certo le dinamiche di un contraddittorio, con tutto quello che reca in sé.

Tocca mettersi comodi, ed attendere il finale.

Cè chi non vuole più prendere la macchina.
Si vive nella paura. Paura di morire per mano di chi incrocia la propria vita.  Non siamo più padroni della nostra vita una volta che ci mettiamo in macchina: È una perenne roulette russa. Siamo pendine nelle mani di chi decide di vivere sulla strada nella maniera più spregiudicata possibile e senza il minimo rispetto delle regole (non solo del codice della strada).
Le stragi del sabato sera, i giovani che sfrecciano in curve a velocità folle, in diretta Facebook, famiglie distrutte e tutte le problematiche che stanno dietro ognuno di questi incidenti che sono evitabili ma che sembra nessuno voglia evitare davvero.
La morte e la paura della stessa non inibisce azioni pericolose. La vita vera non ha nulla a che fare con i videogiochi dove se “muori”, alla fine trovi sempre un modo per riavere “una vita”. La vita vera non è come nei videogiochi, la vita virtuale ha una forma circolare, la vita vera è una linea che dovrebbe poter continuare a camminare, ma che viene interrotta da chi pretende di poter essere invincibile e di potere tutto.
Lo strazio del dolore dei genitori che perdono i propri figli. Intere comunità sotto shock.
Ragazze che muoiono perché fuori alle discoteche non si trovano mezzi per rientrare a casa, e non ci sono taxi per riportarle a casa. Ragazze che muoiono perché non hanno alternative, costrette ad accettare un passaggio. I ragazzi a 20 anni bevono, difficile impedirlo. Ma non ci sono alternative, forse servirebbe pensare a questo.
Contromano nella corsia degli autobus. Poi il giovane di Cagliari ha cercato di rimediare ma finisce sul cordolo tra le due corsie, la macchina si accappotta, finisce a testa in giù. I ragazzi seduti avanti sono morti sul colpo, quelli dietro sono stati sbalzati. Due sono morti, due sono ricoverati e non ricordano nulla.
Omicidio stradale plurimo.
In 6 in macchina, e andavano veloce.
E siamo sempre alle solite.
Finale tragico.
In due giorni sono morte 8 persone.
E queste stragi continuano e continueranno in una scia infinita.
E poi investiti ciclisti, anziani.
Consumo di droga e alcol continua a salire.
I controlli non sono abbastanza.
Distrazione da uso del telefono cellulare.
La lista è lunghissima delle irregolarità che si consumano sulle strade.
420 vite perse dall’inizio dell’anno.
30 solo nell’ultimo fine settimana.
Siamo genitori che mandiamo i figli a scuola (e magari vengono investiti sulle strisce), che vanno al cinema (e vengono investiti mentre camminano a piedi su un marciapiede da macchine impazzite in mano a giovani drogati); Siamo genitori di ragazzi che il sabato sera escono con gli amici e se squilla il cellulare non sappiamo quale sia la condanna che ci attende.
I controlli vanno fatti anche di giorno. Ci sono persone che fanno uso di cocaina anche di giorno, che bevono anche di giorno.
Possiamo fare tutte le riforme che vogliamo ma se non ci sono i controlli sulle strade anche di giorno, controlli seri e mirati, continueremo ad essere pedine nelle mani di coloro che non hanno nessun rispetto per le regole e per il prossimo.
Per Frud si trattava di “pulsione di morte”.
Oggi si osservano comportamenti che apparentemente sembrano di vita ma che in realtà sono violenza verso se stessi e verso gli altri. Morte fisica ma anche della personalità, voglia di distruggersi e di distruggere lasciandone memoria.
La distruttività come un boomerang.
Inconsapevole “pulsione di morte”.
Fermarla, è un dovere.

Non immaginavo si potesse vivere una esperienza emotiva così forte; eppure è successo.

Giovane, con tanto da dire e da dare, il mondo di Madame – in concerto ieri al teatro dei ruderi di Cirella – è proprio un castello con le finestre senza vetri, ci entrano sole e intemperie.

Non è disinibita, è viva.

È lei, unica, piena di carattere e di appeal, e mentre si racconta, racconta via, verità e vita di una giovane che ha già vissuto tante vite.

Ogni parola ha un peso, alcune di esse sono così affilate che ti trafiggono dentro l’orgoglio e la paura di essere pieni di tormenti.

Coinvolge, avvolge, accoglie e contagia con il suo modo di essere autentica e pungente.

Il concerto, straordinario, è diviso in due parti; una più intimistica e l’ultima che ha l’aria della festa.
La sua autenticità che si sposa con il suo essere austera, è estremamente accattivante. Parla al suo pubblico, spiega ai genitori dei tanti adolescenti presenti che da un certo momento in poi “si fa sul serio” nel senso che ci sono pezzi come “Pensavo a” che sono adatti solo ad un ascoltatore adulto e consapevole. Ma quel suo pubblico la ama, la cerca, la capisce, perché lei “ti entra dentro” e ti toglie quel velo di rigidità che il vivere comune di consegna.

Dal vivo, senza la sovrastruttura degli effetti, arriva la voce intonatissima e calda di una delle migliori cantanti in circolazione che a mio avviso, per i suoi testi, finirà nei libri in cui si parla di cantautorato, ed io le auguro di restare così, ossia capace di prendere il groviglio che ha dentro, attraversare notte e note, per riconciliarsi con il mondo e con tutti coloro che la amano.

Avatar,  Quanto forte ti pensavo, Tu mi hai capito, Nimpha, Baby, Donna Vedi. Parte così il concerto e lei assolutamente a suo agio, canta e incanta. Il pubblico la segue e le racconta tutto l’amore che lei riesce a donare.

Per la prima volta dal vivo fa “La festa della cruda verità”.

Racconta come è nata quella canzone; Dardust le porta una musica che suona proprio come una tarantella. Lei immagina una grande festa di paese, dove si fa un gioco collettivo: dire sempre e solo la verità.

La canta e dopo invita il suo pubblico confessare un segreto.

“Tutti dovrebbero averne uno” e a volte confessarlo, fa sentire liberi.

È strano e affascinate il suo modo di essere così travolgente, ma con classe.

Ha classe Madame, sa quello che vuole e non ha paura di chiederlo.

È colta Madame, conosce la musica, la metrica e ha una capacità di porre gli accenti sulle parole affinché il significato si mescoli alla musicalità.

È unica, Madame con i suoi 21 anni che trasudano passione e follia, dolore e sorrisi.

Che in quel suo sorriso – con i suoi “denti in ordine sparso” come canta in “17”, in cui racconta dell’importanza dei rapporti, fuori da quella voglia di apparire e di buttarsi via – c’è il senso di tutto.

Non pensavo di riuscire a provare un pugno nello stomaco, quando ha cantato quella che per me è e resterà una meravigliosa poesia che solo un’artista ispirata e capace di capire ciò che conta veramente, poteva scrivere.

“Per il tuo bene” Madame la canta seduta su uno sgabello ed è subito magia.

Regala al suo pubblico anche la sua prima canzone, la dedica a tutti coloro che la seguono dagli inizi, da quando aveva 17 anni.

Con “Schiccherie” dimostra tutta la tua bravura nella gestione della prosodia, dell’uso degli accenti che “si baciano” con il testo … e che testo!

La seconda parte del concerto è festa.

Invita il suo pubblico ad avvicinarsi al palco.

Balla Madame, è disinvolta nella sua fisicità, è piena di energia pura, è travolgente.

Aranciata, Voce, Bene nel male, Marea, Techno poke.

È festa, è tutto perfetto, è un mondo da attraversare.

Con lei sul palco Dalila Murano (batteria), Karme (Carmelo Caruso) (tastiere), Estremo (Enrico Botta) (consolle) ed Emanuele Nazzaro (basso), tutti all’altezza di questa artista.


Grazie Madame.

Hai ragione tu l’amore è solo di chi prova amore, è la più bella delle bugie, il più studiato degli inganni, il più persuasivo dei discorsi.

Sei Amore, tu, nelle sfumature più profonde e affilate di questo sentire chiamato vita. 

 

Eh mai io no, io non sono così.

Non si sta qui a dividere i buoni dagli stupratori.

C’è bisogno di una collettiva presa di coscienza; perché alcuni accadimenti sono frutto di una metodica errata, che disconosce la responsabilità di educare i giovani al rispetto dell’altro.

Non esiste più il dialogo tra genitori e figli, non esiste l’educazione sessuale, non esistono più filtri e tutto questo è aberrante tanto quanto gli ultimi fatti di cronaca che raccontano di uno stupro di gruppo da parte di giovanissimi – completamente fuori da ogni limite e da ogni regola – ai danni di una ragazza che oltre al danno, ha subìto l’umiliazione da parte di chi pensa di avere il diritto di giudicarla e di apostrofarla in maniera subdola e meschina.

Vi è una responsabilità collettiva; in primis genitoriale, perché questi ragazzi violenti, stupratori, esaltati, sono il frutto di una completa assenza genitoriale, perché non vi è solo una mancanza di educazione alle regole, ma spesso sono figli di genitori che incitano alla virilità, che non mettono freno a delle abitudini malsane, che alterano la realtà, come se ogni giorno si debba superare un qualche limite, per vedere come va a finire. Sono figli di madri che apostrofano le vittime come poco di buono, ma che nelle stanze dei propri figli però, non sono mai entrate e non si sono mai interessate a come quei figli, oggi stupratori, passassero il tempo, immersi in una dimensione alterata, distorta, che crea dipendenza e sfida i giovani a ciò che non è e non sarà mai solo una bravata.

È colpa di un sistema che “concede attenuanti” lì dove la pena massima non sarà mai neanche abbastanza, perché confessare uno stupro di gruppo con quella portata di violenza, non merita un premio, ma una punizione esemplare.

È colpa dei circuiti della comunicazione – giornali compresi – che alimentano la spettacolarizzazione del male, la curiosità verso tutto ciò che è fuori da ogni limite. Perché la cronaca deve fare altro e la ricondivisione di frasi dette, che raccontano uno scempio senza l’analisi sociologica di un problema che è reale, è esso stesso un problema … ed anche serio.

E questo perché a volte è solo un caso che queste notizie vengano a galla, ma chissà quante se ne consumano ogni giorno, senza che la cronaca o la platea dei social lo sappia. E perché alcuni episodi di tale portata non si consumano a volte solo per un puro caso, ma esistevano invece le intenzioni. E quindi si ritorna all’origine di tutto: la mancanza di una presa di coscienza collettiva. Perché continuiamo a parlare dello schifo assurdo che si è consumato, ma poco si pensa alla vittima che resterà mutilata per sempre; mutilata in tutto ciò che rende liberi, perché la libertà di dire di no, viene violata tanto quanto il corpo; mutilata nella considerazione di sé stessa come donna che ha vissuto un orrore profondo, emotivo oltre che fisico e che vedrà tutto alterato, per sempre; perché gestire dolore, rabbia, sete di giustizia e rapporti interpersonali futuri, sarà come vivere un perenne inferno, sarà come vivere con un mostro sotto il letto pronto ad uscire e a sbranare in un giorno qualunque di quel che resta dell’esistenza.
La donna vista come un oggetto non del desiderio, ma di un istinto carnale.
La donna come pezzo di carne da usare se serve, quando se ne ha voglia. Orrore.

Io non sono così.
Io non lo farei mai.
Continuano a dire gli uomini.
Non è questione del singolo, ma di una collettività che deve riscoprire una coscienza, che riguarda tutti, nessuno escluso.

Rieducare al rispetto dell’altro, del no dell’altro, delle scelte dell’altro.

Non le riporto le frasi di quegli stupratori. Mi rifiuto di farlo.

Mi viene da pensare non solo all’atto subdolo, violento, meschino consumatosi, ma anche alla completa mancanza di umanità nel non chiamare i soccorsi, nell’esaltazione del voler condividere l’accaduto e la pretesa affinché la vittima non denunciasse.

Sono i tasselli del mosaico di una società incancrenita, alla deriva, fuori controllo e forse irrecuperabile, se non ci si prende ognuno le proprie responsabilità.
Vorrei che si comprendesse la gravità di ciò che è accaduto, ma senza sconti.
Lo stupro è un crimine gravissimo non solo verso il singolo ma verso l’umanità e allora mi domando quale debba essere la pena da infliggere.
Forse la pena dovrebbe toccare a tutti noi, fin quando non ci interrogheremo su ognuno dei nostri sbagli, primo fra tutti come educhiamo (o non educhiamo) i giovani a gestire emotività, sesso e relazioni … ognuno dal proprio ruolo.