Voi siete proprio sicuri che il prossimo 3 di maggio, Anno del Signore 2020, usciremo come leoni all’apertura delle gabbie?
Siete proprio sicuri che ci faremo barba e capelli, trucco e parrucco per uscire di casa al “pronti, via”?
Io non ne sono così sicura.
Ma poi uscire per andare dove, precisamente?
Ma con o senza mascherina?
Cercheremo un bar per quel tanto agognato caffè o andremo a comperarci un libro?
Io penso che il 3 di maggio sarà un giorno nel quale ci chiederemo: “e adesso? Che faccio, dove vado?” Chi ha lavorato per tutto il tempo del lockdown probabilmente si fermerà al solito bar a fare colazione; chi è uscito solo per la spesa quel giorno non la farà affatto, e presumibilmente i supermercati saranno per la prima volta nelle ultime 9 settimane, assolutamente vuoti. Non sarà più una emergenza comperare il pane. O forse sì. Perché l’emergenza se anche fosse che finisce fuori, resterà dentro di noi, perché avremo bisogno ancora di tante cose a cui nessuno forse, farà caso, fino a quando quelle necessità non diventeranno ingombranti.
Non è facile neanche solo immaginarla una nuova normalità dopo mesi in cui siamo stati insonni, soli, preoccupati, inquieti; e poi ancora speranzosi, combattivi … perché vivi. Che per imparare a combattere ci vuole la guerra fuori dalla porta di casa, che mica ci addestrano alla guerra e non è mica vero che nasciamo guerrieri. Ma quando mai!
Resteremo fermi, a domandarci se siamo pronti a quell’apertura; perché non sapremo se e quanto potremo essere al sicuro fuori dalle nostre case, fuori dallo schema che ci hanno inculcato per mesi, fuori da quei gesti che come automi abbiamo compiuto smettendo sin da subito di domandarci “perché” e perpetrando la domanda: “fino a quando“?
Che anche dopo il 3 di maggio, al primo starnuto penseremo di avere il coronavirus, e saremo colmi di diffidenza, verso tutti, anche verso quelle persone con le quali in tempi di pace eravamo soliti lanciarci in “baci e abbracci”. Perché nel tanto tempo apparentemente libero di questa quarantena, durante la quale in ostaggio sono stati anche i nostri pensieri, non solo i nostri corpi, non abbiamo mai realmente pensato a quanti danni possano aver fatto giorni tutti uguali, con la paura a fare la sentinella, con la disperazione nel buio della notte e con l’unica domanda sempre lì, in prima fila: “tornerà la vita di prima?” E la risposta è affilata e scomoda: “no che non tornerà; nulla sarà più come prima“. E la certezza di questa risposta resta lì come una spina nel fianco, che farà male tutte le volte che di quel tempo andato, avremo nostalgia.
No, non usciremo come leoni all’apertura delle gabbie dopo il 3 maggio. Non ne avremo voglia o forse non ne avremo ancora. Eppure adesso ne abbiamo, altro che. E ci manca l’aria pensando che se facciamo 200 metri e 2 passi finiamo per incorrere in ammenda, o quando realizziamo che non potremo andare più lontano del supermercato sotto casa ancora per tanti giorni.
L’effetto psicologico di tutto questo lo vedremo proprio dopo il 3 di maggio, quando dovremo tornare a prendere decisioni spicciole che in questi giorni sono finite chissà dove. E se pensiamo a chi si trova nella condizione di non poter lavorare e di non sapere come fare, allora viene da domandarci quanto grande sarà la voragine nella quale si finirà nei giorni che verranno.
Pensiamo al futuro. Un futuro invecchiato di colpo, quello che ha scolorito piani, progetti, il “come saremo” che oggi sembra inadeguato a quel futuro fatto solo di domani e nulla più. Perché il futuro sembra così ingombrante nella sua incertezza, così ruvido che ad esso non riusciamo proprio ad appoggiarci.
Ma ci saranno i cosiddetti mestieri del “dopo”. Tra qualche tempo ad arricchirsi saranno le massaggiatrici, le estetiste, i parrucchieri. Ci sarà il boom degli avvocati divorzisti. Perché scopriremo di non entrare più nei panni di chi eravamo; saremo persone diverse. Saremo forse più grassi, più sciatti ma anche più consapevoli di cosa non vogliamo più. Che alcune convivenze forzate avranno reso la resistenza allenata e la forza resistente.
Sarà una seconda vita, ma non nuova di zecca; sarà – se ne saremo capaci – un riciclo di emozioni usate. Cambierà il nostro linguaggio sociale ed anche la percezione che avremo delle cose e se saremo bravi, faremo anche l’inventario delle cose perdute.
Non sono sicura che usciremo di casa di corsa il 4 di maggio.
Non sono sicura, per dirla tutta, neanche del fatto che avremo imparato alcune cose essenziali da questo periodo di stasi fisica ed emotiva. L’uomo è un animale che si adatta a tutto ma che difficilmente perde le sue abitudini, soprattutto quelle brutte. E se riusciremo a conservare un pizzico di empatia autentica, nei confronti del prossimo, allora forse riusciremo a mettere a fuoco quel che sarà. Avremo capito per davvero il senso dell’essenziale? Non lo so. Io penso che molti correranno a comperarsi le scarpe di marca, più che un libro o un disco. Spero che si riesca ad avere rispetto degli spazi degli altri, nel post coronavirus, anche di quelli emotivi, perché a volte non ci si accorge di come si possa essere ingombranti con il proprio egoismo.
Torneranno di tanto in tanto le parole chiave di questo periodo dell’anno che finirà nei libri di storia, che vorremo dimenticare senza riuscirci: choc, paura, angoscia, speranza. Quella si dice essere sempre l’ultima a morire. E allora via con le speranze, da oggi, da subito. Provate a dire cosa sperate davvero.
Io vi dico la mia:
Spero che questo periodo ci abbia insegnato a percepire i cambiamenti, prima che diventino eclatanti. Spero che si sia capaci di capire cosa cambia in noi e in chi è vicino a noi. Perché diciamolo … in questo periodo abbiamo scoperto cose delle persone con cui dividiamo un tetto che non avevamo mai forse notato prima e non dovrebbe servire una clausura, per scoprire che si piange, mentre il mondo va, e poi torna. Forse.
Simona Stammelluti
Credits: La foto nell’articolo è di Martina Polito, si intitola “Due di quattro” vincitrice del Premio Vizzini 2019 su Donne e Sicilia