Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 16 di 94
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Abbiamo sfidato il tempo ostile della guerra e abbiamo fatto un bel viaggio nella musica e nella bellezza insieme a Massimiliano Rolff, musicista e compositore jazz, pronto per una tournée che lo porterà in tutta Italia con il ”Gershwin on air Live tour” che partirà da Acireale il 7 e 8 marzo, il 9 sarà a Palermo e poi via via fino a Verona il 20 marzo p.v.

Queste tutte le date:

07.03 ACIREALE
08.03 ACIREALE
09.03 PALERMO
10.03 REGGIO CALABRIA
11.03 BARI
12.03 ANDRIA
13.03 TARANTO
15.03 ROMA
16.03 CALCINAIA
17.03 BOLOGNA
18.03 MILANO
19.03 GENOVA
20.03 VERONA

Insieme a lui abbiano parlato della sua carriera, del suo modo di concepire la musica, della sinergia tra i musicisti, di festival, dell’importanza dei jazz club, di come nasce l’idea per un disco, e di tanto altro ancora.

GUARDA L’INTERVISTA

 

 

 

Mertcan ha 20 anni e una famiglia da mantenere, genitori e un fratellino di 7 anni. Va a lavorare in fabbrica a Nichelino tutte le mattine in bicicletta, con qualunque evento atmosferico per guadagnare 600 miseri euro al mese.
Andava a lavoro anche quel giorno in cui i carabinieri sbadatamente hanno aperto di scatto lo sportello della loro auto, facendolo quasi cadere.
Il giovane avrebbe imprecato, come avrebbe fatto chiunque, e si è allontanato.
Ma quegli stessi carabinieri, lo fermano poco dopo. Mertcan non ha con sé la mascherina, non obbligatoria quando si va in bici ma ancora obbligatoria all’aperto (al momento dell’episodio) e dunque da fermi.
Un passante che assiste alla scena, si offre di dargliene una, ma i carabinieri non ne vogliono sapere (chissà perché!) e lo multano: 280 euro, ossia quasi la metà del suo stipendio.
Parte così una straordinaria gara di solidarietà per aiutare il giovane a pagare la multa ed anche un avvocato si offre di rappresentarlo, pro bono.
Più di qualcosa salta all’attenzione però e non quadra.
I carabinieri non sono immuni da errori, può essere che aprono lo sportello distrattamente. Bastava un “sorry”, in fondo non si era fatto male nessuno.
“Ha imprecato con parole colorite” – dicono i militari. Bah, mi domando cosa avrebbero detto loro, se fossero stati al posto del ciclista.
Così si vendicano, e lo fermano.
Ma non lo fermano soltanto, vogliono multarlo e non c’è verso di far loro cambiare idea. Vogliono vivere facile. Ed anche se il passante porge la mascherina al ragazzo per loro non va bene. Si chiama abuso di potere o no? Anche prevaricazione può andar bene.
E se avesse veramente imprecato, il giovane si sarebbe preso (sul momento) una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale e non certo una multa per una mascherina del piffero che tra l’altro il giovane era riuscito a reperire praticamente in tempo reale.
Come la vogliamo chiamare questa storia?
Direi che “una multa a tutti i costi” potrebbe andare bene.
A me mette davvero tristezza dover constatare che ognuno di noi potrebbe incappare in situazioni simili e sinceramente è svilente oltre che intollerabile.

È una situazione sicuramente molto delicata.
È legittimo non essere d’accordo sull’eutanasia come sull’aborto.
Una legge in merito però è necessaria, perché non obbliga ma regola una libertà di scelta.
Ma la legge non arriva.
E la consulta boccia il quesito referendario, perché “non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana“.
Ma la domanda che si frappone fra l’etica e il diritto è: è una questione personale dell’individuo, oppure è una questione sociale?
Sicuramente non avere una legge sull’eutanasia significa imporre, ossia non concedere libertà di scelta, e questo uno stato laico e democratico non può permetterselo.
Ma analizzando un po’ più da vicino la questione è più complessa.
Intanto la Corte Costituzionale è stata quasi costretta a rigettare il referendum perché, essendo abrogativo, avrebbe lasciato dei vuoti legislativi.
Pensiamo intanto che la libertà del singolo individuo finisce dove comincia il diritto alla salute della comunità. E l’eutanasia sicuramente è una scelta personale che non intacca la salute o il diritto di altri. Chi è sottoposto ogni giorno ad atroci sofferenze (perché a queste persone si pensa quando si parla di morte assistita) e quando la medicina non è in grado di dare una qualche speranza di guarigione, deve poter decidere di mette fine alla propria sofferenza. Fin qui non fa una piega.
Ma analizzando bene, il problema dell’eutanasia non è se un soggetto ha o meno il diritto di morire con dignità, ma se ha il diritto di essere ucciso, su richiesta, con il Servizio Sanitario Nazionale. È in questo passaggio, che la questione individuale diventa una questione sociale. Ed è per questo che serve una legge, che fa il parlamento e non si fa con un referendum. In teoria è questo alla base della risposta della consulta.
Perché allora non la si fa questa legge? Semplicemente per non inimicarsi il Vaticano? Non credo proprio.
Vorrei soffermarmi anche su un problema che sulla carta non esiste, ma che esiste nella realtà dell’applicazione.
La legge sull’aborto esiste, dal 1978, ma raccolgo testimonianze di donne che in Molise, non possono usufruirne, hanno difficoltà a praticarlo.
Anche l’aborto nasce a “tutela sociale della maternità“, come si legge sul portale del ministero della Salute. L’aspetto sociale è sempre contemplato, malgrado le difficoltà oggettive che investirebbero la pratica dell’eutanasia esattamente come accade con l’aborto (scelta personale).
Stessa cosa accadrà quando e se ci sarà una legge sull’eutanasia.
C’è anche molto da analizzare circa quel “diritto alla vita” previsto dallo stato laico e democratico, poiché dal punto di vista giuridico non esiste un “diritto alla morte“.

Però tocca fare un passo indietro, per chiarire la vicenda attuale.
Due anni fa circa, la Corte Costituzionale con la sentenza 242/19 aprì le porte al suicidio assistito. In quella occasione la consulta indicò alcuni criteri, rispettando i quali, il suicidio assistito non sarebbe stato punito. Questo vuol dire che il rispetto di quei criteri esprime certamente una”tutela minima costituzionale necessaria alla vita umana”. 
Il referendum, visto che era abrogativo, non poteva prevedere l’inserimento di alcuni criteri per accedere all’eutanasia tramite l’omicidio del consenziente e quindi la Corte, forse, ha ritenuto inammissibile il quesito proprio perché la mera abrogazione seppur parziale del reato dell’omicidio del consenziente avrebbe permesso di uccidere chiunque, stante solo la presenza di un solo criterio: il suo consenso. Troppo poco per permettere l’eutanasia.

Quali dunque i criteri per chiedere di essere uccisi con il nostro consenso?
Il referendum puntava a eliminare quelle parti dell’art. 579 Cp che prevedono una risposta sanzionatoria, ma senza aggiungere nulla in merito alle condizioni per richiedere legittimamente di essere uccisi. Pertanto si può concludere che, dal momento che l’uccisione del minore, dell’incapace o della persona a cui si è estorto il consenso, sarebbe rimasto reato anche dopo la vittoria dei Sì, sarebbe stato necessario un consenso giuridicamente valido per uccidere qualcuno. Ma null’altra condizione si sarebbe dovuta rispettare.

L’Associazione Luca Coscioni aveva previsto questo qui pro quo e aveva tentato di mettere una pezza dichiarando quanto segue: “Con questo intervento referendario l’eutanasia attiva sarà consentita nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e il testamento biologico, e in presenza dei requisiti introdotti dalla Sentenza della Consulta sul Caso Cappato”. In breve, i Radicali ci stavano dicendo che per non finire in galera per omicidio del consenziente sarebbe stato necessario rispettare i vincoli presenti nella legge 219 prima ricordati e quelli della sentenza 242/19 della Corte costituzionale confluiti nel Ddl Bazoli-Provenza. Ma i requisiti previsti dalla legge 219 riguardano solo alcune modalità di uccidere il consenziente, non le infinite modalità che sarebbero state legittimate con un’eventuale vittoria dei Sì.

Pertanto il punto fondamentale resta che i requisiti per accedere all’eutanasia, allo stato attuale, sono diversi e cambiano a seconda della disciplina normativa di riferimento. Abbiamo quindi alcuni requisiti presenti nella legge 219 e validi solo per alcune modalità per sopprimere il consenziente (o anche il minore e l’incapace tramite il consenso del rappresentante legale); molti altri requisiti che interessano il suicidio assistito disciplinato dal Ddl Bazoli-Provenza; ma quasi l’assenza di requisiti in quel che sarebbe rimasto dell’art. 579 Cp sull’omicidio del consenziente se il referendum fosse stato accettato dalla Consulta e se, poi, avessero vinto i Sì.

La domanda che nasce spontanea a questo punto è: cosa potrà accadere in futuro di fronte a questa disparità di regolamentazione?
L’ipotesi più probabile è che si renderanno omogenei i criteri di accesso all’eutanasia estendendo quelli su indicati.
Pertanto anche se il referendum è stato bocciato, il reato di omicidio del consenziente in futuro possa comunque essere depenalizzato, così come sta accadendo per il reato dell’aiuto al suicidio, prevedendo alcune “condizioni legittimanti”.

Quanta fatica però.
La scelta dell’eutanasia è dunque una questione sociale e pertanto va legittimata attraverso una legge, senza troppe storture che permettano di “adeguare” qualcosa che è si è già compiuto, in favore di una condizione in divenire.

Si parte il 24 febbraio e si continuerà fino al 6 marzo con le audizioni live al Teatro Lauro Rossi di Macerata, visibili anche in diretta streaming sui canali social di Musicultura. Un viaggio di dieci serate live nella musica italiana. Nella serata di apertura sarà ospite Cristina Donà

Sono partiti in 1086 e sono diventati 61 gli artisti e artiste in gara per l’edizione 2022 di Musicultura, il Festival della Canzone Popolare e D’Autore. Tra questi 61 c’è anche Ciro Zerella, in arte Zerella, avellinese classe 1993, che da tempo calca le scene del cantautorato, che è il suo luogo ideale, e la partecipazione a Musicultura è per lui un ottimo traguardo da festeggiare, tanto quanto i suoi dischi che riscuotono ottimi consensi tra pubblico e critica.

Tutti gli artisti convocati a Macerata dovranno esibirsi con due brani davanti al pubblico e alla giuria di Musicultura, presieduta dal direttore artistico Ezio Nannipieri e composta da Stefano Bonagura, Marco Maestri, Roberta Giallo; Natascia Mattucci e Roberto Giambò.

Zerella parteciperà alle audizioni con i i brani “Prenderti o perderti” tratto dall’album “Sotto casa tua” del 2018  e “Tutta Bianca” singolo uscito nel settembre 2019.

Al termine delle audizioni saranno 16 i finalisti che faranno due concerti al teatro Persiani di Recanati in collaborazione con Rai Radio 1 (radio ufficiale di Musicultura), nel prossimo mese di Maggio. Le loro canzoni comporranno inoltre il CD compilation della XXXIII edizione. Le canzoni finaliste godranno anche di un’ampia diffusione radiofonica e il pubblico avrà modo di votarle per designare due degli otto vincitori. I restanti sei vincitori saranno espressi dalle scelte insindacabili del prestigioso Comitato Artistico di Garanzia di Musicultura, che nell’edizione in corso è composto da: Vasco Rossi, Roberto Vecchioni, La Rappresentante di Lista, Enzo Avitabile, Claudio Baglioni, Francesco Bianconi, Giorgia, Carmen Consoli, Simone Cristicchi, Sandro Veronesi, Niccolò Fabi, Dacia Maraini, Gaetano Curreri, Maria Grazia Calandrone, Luca Carboni, Alessandro Carrera, Guido Catalano, Ennio Cavalli, Diego Bianchi, Teresa De Sio, Francesca Archibugi, Mariella Nava, Antonio Rezza, Enrico Ruggeri, Tosca, Paola Turci, Ron.

Gli otto vincitori di Musicultura saranno protagonisti nel prossimo mese di giugno – insieme ai  prestigiosi ospiti italiani ed internazionali – delle serate di spettacolo finali del festival, all’Arena Sferisterio di Macerata. Lì sarà il voto del pubblico ad eleggere il vincitore assoluto del concorso, al quale andrà il Premio Banca Macerata di 20.000 euro.Verranno inoltre assegnati la Targa della Critica Piero Cesanelli (€ 3.000), il Premio AFI (€ 3.000), il Premio per il miglior testo (€ 2.000) e il Premio (€10.000) per la realizzazione di un tour, col sostegno di Nuovo Imaie.

Siamo abituati ad applaudire Tony Servillo che non sbaglia mai un colpo, che è – a buona ragione – il miglior attore italiano vivente, capace di vestire qualunque ruolo facendo dimenticare il precedente. Non è lui, è tutti i personaggi che è stato, ed ogni volta è una rivelazione.
Ci si stupisce ogni volta, malgrado si conoscano ormai bene tutte le sue peculiarità artistiche.
Le sue interpretazione sono sempre appaganti, e lui resta uno dei pochi attori che riesce a girare anche tre film in un anno.
In quello passato lo abbiamo visto in “È stata la mano di Dio” di Sorrentino, candidato anche all’Oscar, in “Qui rido io” di Mario Martone, che sembra scritto sulla sua “napoletanità”, nel quale veste magistralmente i panni del padre dei fratelli De Filippo che dal genitore avevano ereditato l’arte del teatro ma mai il cognome, e poi Ariaferma“, di Leonardo Di Costanzo, che è dei tre il film con maggiore spunto di riflessione considerato l’aspetto sociale, quello che riguarda la problematica delle carceri e di chi ci lavora, ma che al contempo fa riflettere sul ruolo attoriale, su come si può costruire un film con una storia ben sceneggiata, ma anche con una coralità che nasce dalla scelta degli attori e della capacità di muovere i personaggi della storia.
Ed è proprio il personaggio di Carmine Lagioia, un detenuto non proprio come tutti gli altri, che consegna a Silvio Orlando la possibilità di mettere in scena una delle sue migliori performance. È infatti Orlando a colpire non solo per come recita, ma anche per come utilizza quel ruolo, affatto semplice, per “tenere banco”, per catalizzare su di sé l’attenzione, il pathos scena dopo scena, fino alla resa dei conti, ossia un legame che unisce un detenuto e una guardia carceraria, non una qualsiasi, ma chi gestisce l’alternanza di scelte, tra azioni e regole.

La storia di 12 detenuti che scontano la loro pena in un penitenziario ottocentesco, che viene dismesso ma che li “imprigiona” dentro un trasferimento che tarda ad arrivare e che li costringe a vivere isolati dentro l’isolamento, in  un tempo sospeso, che si presta, dal punto di vista drammaturgico, alla costruzione di uno spazio privo di coordinate.
La straordinaria fotografia di Bigazzi, aiuta a rendere bene l’idea di un posto isolato, buio e al contempo oscuro, ostile, inospitale, che si fa fatica a immaginare come un luogo che possa ospitare chiunque, fossero anche detenuti da punire.
Lo spannung nel film è graduale e costante, quella continua necessità di effettuare una scelta, che può solo essere giusta o sbagliata, senza vie di mezzo, che può essere condivisa o meno dai sottoposti, che deve essere forza, dentro una fortezza.

Gaetano Gargiuolo (interpretato da Tony Servillo) deve coordinare la vita in quel carcere surreale, deve scegliere costantemente come approcciare alle richieste e al carattere di ogni detenuto, che ha bisogni, ha paure e necessità sia fisiche che emotive. Deve decidere a volte in fretta, senza potersi neanche confrontare con i suoi collaboratori; il gioco diventa a due, tra il detenuto più forte caratterialmente (Orlando) che ha un grande carisma e potere sugli altri, e lo stesso comandante, che gli affida il ruolo di cuoco improvvisato, per tenerlo quanto più possibile sotto controllo, pur sapendo che mai provocherebbe rivolte, considerato che lo stesso è ormai a fine pena. Il controllo è però reciproco, ecco il ruolo psicologico del film. Il detenuto è scaltro, sa come muoversi, sfida costantemente il suo diretto interlocutore, agisce e aspetta la reazione dell’altro, che non può certo soccombere ma per farlo deve essere altrettanto astuto e deve scegliere come agire, senza tradire mai il suo ruolo e senza tradirsi mai.

I dialoghi sono calibrati su ogni personaggio, eppure a parlare sono in maniera sfacciata gli occhi dei protagonisti; gli sguardi si insinuano nel silenzio tra le parole, si fanno strada dentro le incertezze circa ciò che avverrà un attimo dopo e diventano complici dello spettatore che se ne ciba, mentre si insinuano nella storia. La prossemica e le espressioni dei volti dei protagonisti, sono molto più efficaci di ciò che dicono.

I rapporti tra Lagioia e il giovane detenuto Fantaccini sono colonna portante della pellicola, tanto quanto quelli con Gargiuolo, del quale sarà allo stesso tempo antagonista ed alter ego.
La bravura di Di Costanzo si innesca in quella capacità di dare alla storia un senso sempre, pur quando allo spettatore tocca fare da sé, ossia provare a comprendere l’aspetto psicologico dei personaggi, come quanto ci si interroga su quel comportamento del detenuto anziano sul giovane, per cercare di capire se il ruolo è paterno, o manipolatore.
Orlando nei panni di Lagioia è un leader, è capace di condurre tutti nella direzione giusta, sa come fare, meglio di chi detta le regole e dice chi deve fare cosa, come e quando. Il personaggio è dotato di una sensibilità strana da intercettare nell’ambiente carcerario, ma mai banale.
Tante le situazioni eccezionali che si verificano all’interno di quel carcere e che vanno affrontate in fretta ma con lucidità: la necessità di vivere una sola ala della prigione, il poco personale che deve lavorare il doppio, lo sciopero della fame dei detenuti, il mancato invio di cibo, la luce che va via e lascia tutto al buio, nella paura che possa accadere l’irreparabile. E poi invece la soluzione a tutto, come se i protagonisti della storia non fossero detenuti ma commensali ad una comune e gioiosa mensa (autorizzata).
La panoramica sugli occhi di tutti i detenuti che siedono a tavola mentre uno di loro, Jahmal, proclama un aneddoto è estremamente suggestiva.
Occhi attenti che parlano, che raccontano, che fanno spazio alla realtà.
Racconta e poi lascia sottintendere, il regista.
Racconta e lascia sottintendere caratteri e umanità dei detenuti, che spesso vengono disumanizzati e inariditi dall’idea che ci si fa di chi vive le carceri. Racconta e lascia intendere la difficoltà nelle decisioni da prendere non nell’esecuzioni di ordini che a volte solo sterili rituali.
Racconta e lascia sottintendere quanto i luoghi comuni ci rendano incapaci di comprendere quel mondo duro, buio, nel quale avanza sempre la speranza e la voglia di redenzione, a patto che ci sia uno scambio  scevro da ogni pregiudizio.
Una regia misurata, sensibile e e capace di grande umanità ed a tratti di tenerezza.
Tra gli attori scelti dal regista c’è anche Salvatore Striano, nel ruolo di Cacace.
Striano, napoletano, classe 1972,  che diventa attore dopo essersi appassionato alla recitazione dal carcere di Rebibbia dove è stato recluso a seguito dell’arresto avvenuto dopo una lunga latitanza e una detenzione a Madrid.
Ariaferma è un gran bel film, con un cast d’eccellenza, un cast che vede due coetanei, entrambi napoletani, Orlando e Servillo che finalmente possono affrontarsi, dopo essersi apprezzati a vicenda e attesi, che fanno a gara a chi è più bravo.

Un film che intercetta la realtà scavando in essa, cercando la dimensione in cui due mondi possano conciliarsi.
In quel titolo “Ariaferma” c’è l’ossimoro di quel che si muove dentro la volontà di ognuno, tenuta prigioniera dal gioco dei ruoli e nella chiusura forzata di molte intenzioni.
Una nota di merito va anche alle musiche, che non sono affatto marginali alla pellicola.
Scritte e realizzate da Pasquale Scialò, musicologo e compositore, sono estremamente suggestive, così come il clap handing di Steve Reich, mentre si chiudono tutte le porte delle celle. Il tutto si fonde e ci si ritrova dentro il penitenziario senza più luce né certezze.

Simona Stammelluti 

 

 

 

 

Ho trovato questa 72esima edizione del Festival di Sanremo estremamente amabile e tirando le somme, sono più le cose che mi sono piaciute, alcune delle quali anche tantissimo. E per la prima volta, in una vita che seguo Sanremo per lavoro e per diletto, ho un bel po’ di cose da ricordare.

Però prima di raccontare cosa mi sia particolarmente piaciuto, volevo sottolineare quanto sia stato sobrio (malgrado le giacche!) e professionista Amadeus. Quel suo essere sé stesso, a volte anche impacciato, lo rende adeguato al palco sanremese e anno dopo anno, è diventato quasi uno di famiglia. È vero anche che lo vediamo spesso in prima serata e quindi abbiamo imparato a conoscerlo. E sebbene ci si sia interrogati spesso sul suo ruolo di direttore artistico, ossia colui che sceglie chi debba fare cosa, guardando a questa edizione del Festival mi viene da dire che Amadeus ha saputo osare, portando sullo stesso palco, la storia della musica (Ranieri, Morandi, Zanicchi) con il nuovo che avanza.   E a tenere tutto insieme, a farli convivere e coesistere su quello storico palco, è stato proprio lui.

Sul podio finale tre generazioni, in perfetta sintonia, che si sono tenuti per mano e si sono scambiati quel che erano.

Gianni Morandi al terzo posto, indietro agli altri, che quasi regge con l’esperienza il futuro dei più giovani e che vince il premio Lucio Dalla della sala stampa sinonimo del fatto che sia stato molto apprezzato.

Elisa seconda, che tornata dopo 21 anni al Festival lo fa senza pretese, conservando quel disincanto e quel suo modo di cantare che è sempre lo stesso dimostrando come sia ancora capace di scrivere belle canzoni e non a caso vince il premio Giancarlo Bigazzi per la migliore composizione musicale, dato proprio dai maestri dell’orchestra.

E in cima la nuova gioventù, Blanco e Mahmood che rappresenteranno l’Italia all’Eurovision e che non sono certo degli sprovveduti. Sono la nuova generazione che ha altro da raccontare, che lo fa a proprio modo, con i mezzi che ha a disposizione, e tra questi ci sono le loro voci e i loro sentimenti, le loro vite che si affacciano al domani come i cantanti al balcone dell’hotel dove sotto tutti per giorni i fan hanno cantato “Brividi”.

Mi è sembrato tutto come da pronostico ma anche tutto molto equilibrato, considerato anche il premio Mia Martini consegnato ad un immenso Massimo Ranieri, artista di grande calibro, così teatrale, dotato di presenza scenica e capace di grande magia.

Dissento sul premio miglior testo a Fabrizio Moro quando avevamo a disposizione quello di Giovanni Truppi.

Amadeus quest’anno ha portato sul palco di Sanremo 2022 le attrici, lasciando a casa le vallette canoniche e dunque lo stereotipo del “bello e basta”.
Anche qui se ci fate caso, ha mischiato il vecchio e il nuovo, dalla Muti alla Giarretta, la Ferilli e la Cesarini. E poi Drusilla Foer, che merita una riflessione a parte. Artiste tutte diverse, che hanno gestito lo spazio a modo loro, con quello che avevano da dare e da dire, in maniera più o meno spigliata (la Giarretta più, la Cesarini meno), con in tasca ricordi del passato, esperienze di vita vera, esperienze lavorative, consigli su come gestire la propria unicità e infine, come ieri sera, una Ferilli sobria e spigliata allo stesso tempo, che ammette di non avere un monologo, che non serve, che lei è lì perché ha con sé la sua carriera, quel che ha fatto, e che sceglie la leggerezza, che non è superficialità.

A proposito di leggerezza tocca dirlo che in queste 5 lunghissime serate, abbiamo abbandonato ansie e preoccupazioni, non ci siamo interessati di curve pandemiche, di virologi, di regole da seguire, né di diatribe politiche.  Non abbiamo letto post di chi fosse o meno ancora a favore del vaccino; abbiamo solo condiviso gusti musicali, pronostici e divertimento. Perché sì, al netto di chi puntualmente ogni anno, denigra chi guarda il Festival, la Kermesse è uno spazio nel quale divertirsi.

Anche la scelta degli ospiti canori tutti Made in Italy è stata vincente.
Bravo Amadeus! Il talento lo abbiamo a casa nostra.
E così Cremonini, Jovanotti, ieri sera un eccellente Marco Mengoni.

Ci sono anche delle cose che non mi sono piaciute, ma lasciano il tempo che trovano, perché tanto ci sarà sempre qualcosa che non riscontrerà il nostro gusto. Sempre.

L’unica cosa che vorrei sottolineare perché non ne ho parlato nella serata dei duetti, è stata la questione “Grignani”.
Giusto o sbagliato farlo salire su quel palco e farlo cantare insieme ad Irama?
Non lo so.
So però che non è stata una bella idea darlo in pasto alla gogna mediatica.
Grignani ha bisogno di aiuto ed anche di non sentirsi solo. Ma l’abbraccio di cui ha bisogno deve essere lontano dai riflettori, perché l’affetto e il sostegno sono dimensioni private.

Veniamo a cosa ricorderò particolarmente di questa edizione del Festival di Sanremo.

Ovviamente e come tutti, penso, la presenza sul palco di Drusilla Foer. E la cosa che più mi ha affascinato oltre alla sua immensa presenza scenica, intelligenza, sagacia, capacità comunicativa, è stata che mentre l’ascoltavo non ho pensato mai che dietro quel personaggio vi fosse uomo, che per dare alito a Drusilla deve avere una spiccata sensibilità verso il prossimo e audacia per farlo nei panni di una donna risultando credibile.
Il messaggio che arriva dal monologo di Drusilla Foer – artista poliedrica che sa passare con disinvoltura dalla recitazione al canto – recitato quasi alle 2 del mattino resta e resterà nel ricordo degli 11 milioni di spettatori che hanno seguito la kermesse. Perché da ricordare non sarà un discorso lungo e arzigogolato ma solo quattro parole: “difendere la propria unicità” oltre all’importanza dell’ascolto. Ha ragione Drusilla, non sappiamo più ascoltare. Ma ascoltando lei, forse recupereremo quella capacità per applicarla nella vita di tutti i giorni.

Ricorderò la lettera scritta da Achille Lauro a Loredana Bertè, che però non era solo per Loredana ma anche per Mia Martini.
Una lettera di “scuse”, a cuore aperto. Nessuno lo aveva fatto mai, e l’occasione era quella giusta. Lui era quello giusto.

Ricorderò il pubblico tutto in piedi per cantare e ballare “5o special” durante la performance di Cremonini. E a casa facevamo lo stesso. Un salto nel passato, un momento spensierato, una goccia di bellezza dentro un momento storico brutto.

Ricorderò il gesto della Michielin che ha diretto l’orchestra durante l’esibizione di Emma, che dona il suo mazzo di fiori al primo violino, un uomo, segno del fatto che il gesto di “omaggiare” qualcuno per quel che fa non deve mai avere genere.

Ricorderò la spensieratezza di Gianni Morandi, quell’essere scanzonato e senza tempo. Dopo la prima serata scrivevo che il cantante era rimasto a “fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”. Come se il tempo non fosse passato, stesso sorriso, stessa grinta, stessa semplicità nel fare quello che ama fare. Dovrebbe essere sempre così: continuare finché regge l’entusiasmo e poi mettersi in gioco accettando nuove sfide, senza prendersi mai troppo sul serio.

Ricorderò quel che in pochi hanno apprezzato: l’omaggio a De André fatto da Truppi con Capossela e Pagani nella serata dei duetti. 

Ricorderò la complicità pazzesca tra Blanco e Mahmood durante l’interpretazione di “un cielo in una stanza”. Vi invito ad andarla a rivedere.  La complicità è travolgente, è un collante, è la volontà di stare dalla stessa parte.

Insomma, io promuovo questa 72esima edizione del Festival di Sanremo.
Abbiamo cantato, ballato, discusso.
Ci siamo divertiti, abbiamo riflettuto, ci siamo commossi.
Abbiamo salvato ancora una volta la Musica, che a sua volta ci salva, perché panacea a tutti i mali, e che a volte ci vede d’accordo e spesso in disaccordo, che è espressione di gusti e di sentimenti, che per 5 serate ci ha tenuti tutti insieme appassionatamente.

Perché Sanremo è Sanremo … paràrà!

 

Simona Stammelluti 

Mahmood e Blanco vincono l’edizione 2022 del festival della canzone italiana con “Brividi”

Seconda Elisa con “O forse sei tu”

Al terzo posto Gianni Morandi con “apri tutte le porte”

Premio mia Martini attribuito dalla sala stampa a Massimo Ranieri con “lettera di là dal mare”

Premio Lucio Dalla dalla sala stampa radio tv web a Gianni Morandi con “apri tutte le porte”

Premio Sergio Bardotti per il miglior testo attribuito dalla commissione musicale a Fabrizio Moro con “sei tu”

Premio Giancarlo Bigazzi per la migliore composizione musicale attribuito dall’Orchestra a Elisa con “O forse sei tu”

 

 

È uscito stanotte “E capirai” il nuovo inedito della cantautrice calabrese Chiara Morelli, che nei giorni scorsi è stata a Casa Sanremo, dove ha ricevuto un ottimo consenso da pubblico e addetti ai lavori 

Il pezzo disponibile su tutte le piattaforme digitale e sul suo canale Youtube dove è possibile visionare il videoclip, decreta la nuova maturità artistica della giovane cantautrice che, abbandonata l’ingenuità e il disincanto dell’essere bambina prodigio, mostra il suo talento con un brano da lei interamente scritto e che delinea la sua personalità musicale, che sta prendendo forma sempre più e che la introduce a pieno titolo nel mondo della canzone italiana.

Chiara Morelli, diciassette anni, cresciuta tra musica e studio, sin da piccola si è distinta per la sua inclinazione alla musica, e si è fatta conoscere con cd e singoli inediti soprattutto nel mondo giovane e variegato dei social media, social network e piattaforme web; un mondo che ha imparato a conoscere l’artista che si mostra al pubblico con la spontaneità della sua giovane età ma anche con la consapevolezza di chi sa che, essere personaggio pubblico contempla l’influenzare le masse e i gusti musicali.

Già finalista a Sanremo Junior nel 2019, quest’anno è tornata nella città dei fiori ospite di Casa Sanremo, con un ottimo pezzo, “E capirai” che  racconta di un amore perduto ma che resiste alle distanze, e che pone tante domande che nascono dalla voglia di verità.

Il pezzo, che Chiara ha scritto su misura della sua capacità canora e sulla naturale estensione vocale, è priva di artefatti e mostra la bellezza della sua voce cristallina e che si apre piacevolmente all’ascolto.

Crescono le doti canore di Chiara, così come cresce il consenso verso questo suo modo di fare musica, mentre prende forma la sua accattivante identità musicale.

 

 

Non è certo il primo anno che al Festival di Sanremo si “scivola” nella serata dei duetti e delle cover.
Usciti dalla comfort zone dei loro pezzi, i cantanti in gara (quasi tutti) danno il peggio di sé, come se qualcosa puntualmente si inceppasse e si finisse inevitabilmente a rimescolare tutte le carte. Quello che ci è piaciuto nella terza serata, quella in cui tutto ci sembra adeguato – con l’audio al suo posto e i pezzi che ci erano familiari e quindi è stato possibile apprezzare meglio le performance – quasi tocca rinnegarlo ponendosi qualche perché. Come per esempio perché mai scelgono delle canzoni già difficili e “particolari” che quasi sempre nascono dall’anima di cantautori che nulla hanno a che fare con particolari doti canore ma con un messaggio sociale o personale (oppure di cantanti che delle loro doti canore ne hanno fatto un piccolo paradiso) fino al perché esistano i duetti a Sanremo.

Infatti potremmo dire che ieri sera, la figura migliore l’hanno fatta coloro che hanno gareggiato da soli.

Io abolirei proprio i duetti. Che si cantino le cover e basta. Il duetto prevede una sorta di empatia e di complicità che non puoi improvvisare come se cantassi al karaoke del villaggio. E le coppie erano quasi tutte improponibili fatta salva qualche eccezione. Perché sono coppie anche generazionalmente troppo distanti e quindi incapaci di riconoscersi nelle intenzioni.

E così finisce che Massimo Ranieri e Nek rovinino una poesia come “Anna verrà” o che Aka 7even rovini Cambiare di Alex Baroni in coppia con Arisa, che per strafare finisce in un range troppo alto per lei e la disfatta è servita. A parte che nessuno (o quasi) può riproporre Baroni, cantante sopraffino dotato di una delicatezza e di una leggiadria irripetibili.

Ma facciamo prima a dire chi si sia salvato a parte i due giovanotti vincitori, Gianni Morandi e Jovanotti che in smoking bianco, ripercorrono con un medley le canzoni che sono state dell’uno e dell’altro, e lo fanno senza troppe pretese e questo li rende assolutamente accettabili: Occhi di ragazza, Un mondo d’amore, Ragazzo fortunato e Penso positivo ed è subito festa (e standing ovation, sicuramente esagerata).

Molto bene – a parte qualche incertezza di Blanco – il duo Mahmood Blanco in “Il cielo in una stanza” nel quale si percepisce l’affinità e la complicità dei due. È quello il senso del duetto, due voci e una sola intenzione e con loro si è percepita ogni sfumatura anche perché sono capaci di controcanti sopraffini perfettamente accordati e fluidi.

Bene anche Achille Lauro (dal look perfetto) con Loredana Bertè in “sei Bellissima” e nel duetto il cantante veronese ci fa dimenticare la sua furbizia nel proporre quest’anno, una canzone per nulla originale che ricorda molto i suoi stessi successi del passato (prossimo). Un momento di grande empatia, quella tra i due che si scambiano la parola con generosità. Lauro sa quel che fa e la Bertè ancora regge. Per non parlare dei bellissimi arrangiamenti e dell’orchestrazione.

Che un plauso gigantesco va alla straordinaria orchestra della Rai, che ha rivisitato tutti e 25 i pezzi delle cover con una maestria degna di nota. Spesso mi incanto ad ascoltare le evoluzioni armoniche e stilistiche che i maestri dell’orchestra eseguono, rendendo tutto così perfetto e adeguato.

E poi l’originalità di Lauro, che regala a Loredana Bertè delle rose rosse con un biglietto in cui viene fuori la sua incantevole carnalità.
Un po’ principe, un po’ paraculo.
Ma queste cose lui sa come farle.

Che strano uomo sono io, 
incapace di chiedere scusa, 
perché confonde il perdono 
con la vergogna. 
Che strano uomo sono io, 
Che ti chiama pagliaccio 
perché pensa di dover combattere 
cio che non riesce a raggiungere 
Che strano uomo sono io, 
capace solo di dire “sei bellissima”
perché ancora ho paura 
di riconoscere il tuo valore. 
Stasera “per i tuoi occhi ancora” 
chiedo scusa e vado via 
Bene anche Giovanni Truppi che con Vinicio Capossela e Mauro Pagani eseguono “Nella mia ora di libertà”  di Fabrizio De André.
Quando si ha a che fare con pietre miliari del cantautorato italiano non ci si aspetta nulla, se non la giusta intenzione, e in questo caso la “recita” quasi, di quella perla tratta da uno degli album più significativi di De André “storia di un impiegato”.E così è stato, infatti.  “Nella mia ora di libertà”  racconta l’inutilità del carcere. Forse troppo per il palco di Sanremo, dove ieri sera però erano in 4 e non in 3 perché De André aleggiava mentre scendeva piano la malinconia.
Quella performance è stato un piccolo spazio a sé.
Lo stesso non si può dire per Sangiovanni che malgrado la presenza nel duetto della Mannoia – che però sbaglia anche lei – riesce a rovinare un pezzo molto caro al cantautore che urlava tutta la sua rabbia verso il mondo della discografia che protegge il lato commerciale della musica, a discapito della purezza dell’arte che sono espressione palesi di sentimenti e sensazioni di un artista.
Niente di tutto questo, è tutto sbagliato. Scambi tra i due, intenzioni, intonazione … tutto.
Male anche Yuman che canta “My way” di Sinatra tutta in battere e a lui non basta la brava Rita Marcotulli al piano per decollare. Tutto piatto, senza slancio. 
A me personalmente sono piaciuti Highsnob e Hu nella canzone di Tenco.  “Mi sono innamorato di te” resa originale e ricercata alla presenza di Mr Rain che con la sua parte rap ha praticamente chiuso il cerchio lasciato aperto dai due cantanti in gara, forse perché non abbastanza dentro il pezzo, che sembra semplice, ma che racchiude in sé un tormento non facile da replicare.
Noiose Emma (vestita benissimo da Gucci) con la Michielin in “Baby one more time” di Britney Spears.
Non male La Rappresentante di lista in  Be my baby  The Ronettes con Cosmo, Margherita Vicario e Ginevra.
Bocciato Irama che da sempre mi sembra senza identità incatrato tra Bon Jovi e Grignani e che proprio con Grignani ieri sera ha cantato Grignani che a sua volta era Grignani o meglio la parte un po’ sfatta di sé.
Molto bene Matteo Romano in  Your song di Elton John con Malika Ayane. Bravissimo in una canzone per nulla facile e ben interpretata.
La sua voce delicata e intonatissima si è adeguata perfettamaente alle caratteristiche di quelle della Ayane.
E poi bene Noemi al pianoforte, che esce per prima e canta  da sola “You make me feel” di Aretha Franklin e ci sta, la scelta è azzeccata, il brano è alla sua portata e si adatta al suo cantare, alle sfumature della sua voce, alla sua grinta raffinata.
Tutto il resto è non classificabile. Uno scempio totale.
Ad onor del vero, sono comunque andati meglio quelli che hanno cantato da soli, da Moro alla Zanicchi.
La co-conduttrice della quarta serata è stata la giovane attrice Maria Chiara Giannetta, deliziosa e spigliata, che si prende tutto lo spazio che le viene concesso, che nel suo momento racconta molto emozionata la sua esperienza nel
mondo della cecità per prepararsi al ruolo di Blanca.
Carino il siparietto con Maurizio Lastrico con il quale raccontano una storiella mettendo insieme ed interpretando molti dei titoli che hanno fatto la storia della canzone italiana.
Ma noi ancora si pensava alla presenza scenica e emozionale di Drusilla Foer al cui confronto sfigurano un po’ tutti.

E poi il racconto di Jovanotti al tempo della radio e la recita di una poesia di una immensa poetessa che è Mariangela Guatieri.

Possiamo premiare Lorenzo per la scelta, ma l’interpretazione è mancata proprio della giusta “religiosità” ed intensità che in maniera prorompente travolge chi la ascolta declamare quelle parole di ringraziamento.

La giuria formata dal Televoto (con un peso del 34% sul risultato complessivo), la giuria della Sala stampa, tv, radio e web (33%) e poi la Demoscopica 1000 (33%) premiano Gianni Morandi, seguito da Mahmood con Blanco e terza Elisa insignificante ieri sera con What a Feeling, tanto che abbiamo guardato tutti la ballerina che l’accompagnava.

Sicuramente la serata più difficile da mandare giù e si attende stasera il gran finale.
Ormai conosciamo le canzoni e attendiamo solo di sapere come saranno eseguite e chi vincerà.

Una serata quasi perfetta, se non fosse stato per il solito monologo sulla mafia di Roberto Saviano che nulla c’entrava con la Kermesse al netto della pubblicità alla sua nuova trasmissione su mamma Rai.

Con Drusilla Foer sul palco abbiamo dimenticato tutte le pecche di coloro che l’hanno preceduta.
Ha questa capacità, l’artista, di imprimere a fuoco nell’attenzione del pubblico il suo essere diva, dentro e fuori, quella capacità di essere impeccabile e dissacrante, con una dizione perfetta, lo charme, la presenza scenica, la disinvoltura, la “cazzimma”.
Vince su tutto, il personaggio nato dalla genialità di Gianluca Gori. Vince in simpatia, intelligenza, sagacia e capacità di essere artista a tutto tondo. E non dimentichiamo che sotto le vesti da grandonna, batte il cuore di un uomo molto intelligente.

Simpatica e intraprendente, tiene il palco, mette Amadeus “in un angolo”, si traveste (da zorro) tanto “travestito o no, a quel punto mi sono travestita!”
E poi le sue doti di intrattenitrice, di cantante, di personaggio mai banale, regalate al pubblico in teatro e a casa alle 2 di notte con un monologo, mentre racconta di quanto tutti si sia fatti di talenti, che però vanno allenati, di quanto sia difficile entrare in contatto con la propria unicità e non diversità, di come le nostre convinzioni non debbano mai essere convenzioni, e di come l’ascolto dell’altro sia l’unico vero atto rivoluzionario. Canta, anche, Drusilla Foer, intonata, appassionata e piena di emozione.

Potremmo anche fermarci qui, perché il livello artistico nella terza serata del festival della canzone italiana è stato davvero alto e appagante e a far sì che tutto potesse essere perfetto ci ha pensato un Cesare Cremonini in gran forma, che arriva sul palco e canta, fa quello per cui è nato, canta le sue canzoni che sono da sempre piccoli grandi capolavori. “Nessuno vuol essere Robin“, “La nuova stella di Broadway”, “Marmellata#25“. Cremonini che ci ricorda come si scrivono le canzoni, che in maniera impeccabile regala al suo pubblico i suoi più grandi successi ed è subito magia. Poi torna e canta il suo nuovo singolo “La ragazza del futuro” e infine con la complicità di Amadeus fa fare a tutti un salto nel passato con “50 special“. La gioia della musica, l’energia, la bellezza. Tutto dalla voce e dalla bravura di un cantautore che è rimasto semplice, autentico e credibile nel corso del tempo.

Nella lunga maratona fino a notte fonda, abbiamo riascoltato tutte le 25 canzoni in gara. 

Un audio buono, poche stonature, un tripudio di abiti rosa e la sensazione di essersi già affezionati a molti dei brani proposti, complice anche la radio che nelle ultime 48 ore ha proposto alcune canzoni sanremesi, destinate a diventare il tormentone dell’estate o la canzone del cuore.

Al nuovo ascolto Mahmood e Blanco si riconfermano bravi e credibili, e primi in classifica dopo il televoto.

A seguire in classifica Elisa, che non delude, terzo Gianni Morandi.

Eppure stasera ho trovato bravi Yuman, Matteo Romano, Noemi, Giovanni Truppi.
Non si faranno dimenticare La rappresentante di lista e Ditonellapiaga insieme a Rettore.

Resto dell’idea che la canzone di Massimo Ranieri sia musicalmente la più bella con un testo molto intenso e che poteva anche essere fuori gara. In fondo, per artisti di quel calibro, un’altra vittoria al Festival di Sanremo poco conta, dopo una carriera costellata di successo indiscusso. Penso che a lui andrà il premio della critica.

Stasera è la serata delle cover e testeremo ancor meglio le capacità di ognuno degli artisti in gara, anche se ormai i giochi sono fatti e la vittoria è già scritta.

Di questa serata ricorderò due affermazioni:

Quella di Michele Bravi che rivolgendosi a Drusilla Foer le dice:

Che bello che tu sia qui: con te vince la meritocrazia

Lei ricambia con un bacio sulla guancia di Bravi e si emoziona.

 E poi quella proprio di Drusilla che in finale di puntata dice:

Le parole sono come gli amanti quando non funzionano più bisogna cambiarle

Morale della serata:

La bellezza è molto altro rispetto ad un vestito di paillette.
La bravura l’abbiamo a casa nostra e spesso non ce ne accorgiamo.