Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 15 di 94
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Sapete cosa abbiamo sulla testa?
Quello che vedete nella foto qui sopra.

Qualche giorno fa, da un satellite sono arrivate le immagini che immortalano la tensione nei nostri mari tra la flotta russa e quella della Nato.
Le immagini mostrano la portaerei statunitense Truman inseguita dal caccia Kulakov: una sfida che avviene a poca distanza dalle coste calabresi e quelle siciliane. 

Scene simili non si vedevano da più di 30 anni, dai tempi cupi della Guerra Fredda.
Sulle nostre teste avviene una dimostrazione di forza senza confini, in cui le navi di Mosca esercitano una pressione crescente su quelle dell’Alleanza atlantica.

Sono operazioni che hanno un obiettivo politico ossia far capire che Mosca è pronta a tutto e non teme nessuna escalation. 

La portaerei Truman è l’ammiraglia dello schieramento occidentale nel Mediterraneo: i suoi cacciabombardieri F18 Hornet hanno simulato incursioni volando fino al Mar Nero e al Baltico, per testimoniare la capacità di intervenire in sostegno dei Paesi più vicini all’area del conflitto.

Il Kulakov invece è una nave d’epoca sovietica, completamente modernizzata nel 2010: secondo alcune fonti è dotata pure di missili cruise Kalibr, lo stesso tipo di arma che viene usata per colpire le città ucraine. Si muove in coppia con l’incrociatore Varyag, il peso massimo della Marina di Mosca: un’unità progettata proprio come “killer di portaerei”.

Nel mar Mediterraneo dunque, Mosca ha schierato una forza navale di grande portata: due incrociatori, due caccia, due fregate, una corvetta, almeno due sottomarini convenzionali e con molta probabilità anche uno a propulsione nucleare.

La Cantina Bentivoglio a Bologna è da sempre il posto magico del jazz, luogo ideale dove tutto l’anno si possono ascoltare concerti nella condizione più propizia a questo tipo di ascolto e cioè vicini agli artisti, dei quali si può percepire non solo il talento ma anche l’anima, le intenzioni, l’appeal.
La formula vincente del jazz club, dunque,  con la marcia in più di essere un posto sofisticato dove tutto è perfetto, dal cibo al vino, dalle luci al servizio, dalla musica alla complicità che si sprigiona tra gli appassionati di jazz e quel luogo che non delude mai.
Ieri sera ad esibirsi, un’artista che a mio avviso, merita molta più visibilità di quelle che già non ha esibendosi nelle sale jazz di tutto il mondo.
Champian Fulton è giovane e deliziosa, e la felicità che ha imparato a vivere (sometimes I’m happy – dice) sentendo i suoi genitori suonare il jazz, la regala al suo pubblico che non può non inebriarsi davanti ad una capacità artistica fuori dal comune, perché la cantante e pianista americana non è solo dotata di bravura sopraffina, ma è anche una virtuosa del jazz, e del jazz ne rappresenta la purezza e l’integrità.

Il suo fascino garbato è al contempo prorompente, denso di swing, con il suo pianismo brillante e pieno di idee armoniche nei passaggi improvvisativi, mentre corre sui tasti del pianoforte con la leggiadria di chi conosce in maniera impeccabile la materia e la fa sua, senza indugi e senza ammiccare.

L’ampia sensibilità verso la tradizione jazzistica e i temi di repertorio dei quali ne incarna le sfumature, diventano espressione e linguaggio che trasmigrano nell’ascoltatore diventano dimensione appassionata e coinvolgente.

Con lei sul palco ieri sera due fuoriclasse che al mondo del jazz hanno dedicato tutta la loro vita. Un team ritmico che vede al basso Lorenzo Conte e alla batteria Joris Dudli.

Un connubio perfetto, un interpley impeccabile, uno scambio di spazio sonoro e di complicità, realizzato per innescare un piacere all’ascolto tanto raro quanto appagante.

Champian Fulton eccelle sia al piano che alla voce. Ricorda le voci divine delle cantanti jazz anni 50, e se chiudi gli occhi mentre l’ascolti fai un salto nel passato, sei immerso in quei jazz club newyorkesi e ti avvolge la consapevolezza di essere nel posto giusto con le intenzioni giuste, quelle di godere fino in fondo delle emozioni sensoriali che solo il jazz sa consegnarti.

La voce di Champian è giovane ma ha in sé il tocco del veterano, mentre interpreta gli standard, e a me ha ricordato la voce di Carmen McRae, con tutte le inflessioni vocali del bop, del blues, mentre padroneggia con le ballad fino alla potenza dello swing.

È un’artista dotata e abile nel condurre, cosa non scontata e non facile da riscontare nei trii dove il leader è una donna.

Gli assoli sono agili e raffinati, eloquenti ed effervescenti, sono concentrati sul tema e permettono alla performance di apparire ritmicamente coinvolgente e ricca di sensualità.

Sometimes i’m happy – dice Champian Fulton.
Lo siamo stati anche noi, ieri sera, per un’ora e mezza in cui il jazz ha pulsato nella forma più accattivante possibile.

 

Il 4 aprile 2022 verrà ricordato come il giorno in cui la giustizia ha mostrato finalmente il suo volto, dopo 13 lunghi anni di battaglie e di depistaggi.

In questi anni Ilaria Cucchi, che non si è mai arresa ad una realtà che non era la verità, e i suoi genitori che nel frattempo si sono ammalati, hanno lottato strenuamente per giungere a questo giorno giunto forse tardi, ma come si dice: meglio tardi che mai.

Ma mai avrebbe gettato la spugna Ilaria, rappresentata e sostenuta dall’avvocato Fabio Anselmo, la cui bravura indiscussa, non è stata solo un mezzo per giungere alla giustizia ma la dimostrazione di quanto sia importante competenza, tenacia e valore professionale per raggiungere l’unico obiettivo possibile: giustizia e verità.

E la Verità è che Il 22 ottobre del 2009, Stefano Cucchi è morto perché pestato con violenza all’interno della caserma dei carabinieri.

La Cassazione in via definitiva condanna a 12 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, autori materiali del pestaggio avvenuto la sera del 15 ottobre 2009 e che ha causato la morte di Stefano.

Gli stessi giudici hanno rinviato in Appello per la rideterminazione della pena Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, accusati di falso.

L’arma dei carabinieri si scusa, con la Famiglia di Stefano, con sua sorella Ilaria, che come una roccia ha resistito e ha sopportato i colpi di una giustizia che ha stentato ad arrivare, ma che oggi riporta la pace nella vita di chi ha sofferto così tanto, da pensare forse, a volte, di non farcela, ma tutti sapevamo che ce l’avrebbe fatta, che insieme a Fabio Anselmo ce l’avrebbero fatta.

A sentenza pronunciata, Ilaria ha ringraziato i suoi avvocati, il pm titolare dell’inchiesta Giovanni Musarò, per averli condotti fino a questa conclusione.

12 anni sono pochi o tanti, ci si è chiesto nelle ultime ore?

Questi sono gli anni di condanna per un omicidio preterintenzionale.

Tutti abbiamo davanti agli occhi le immagini che per anni Ilaria Cucchi ha mostrato in gigantografie che mostravano Stefano martoriato dai segni delle botte.

E allora ci si chiede se non ci fosse anche un aggravante in questo omicidio preterintenzionale, uno sfregio operato, un odio consumato in questo pestaggio, un abuso di potere che dovrebbe pesare come aggravante, tanto quanto il reato posto in essere.

Anni difficili quelli trascorsi, anni di depistaggi, “occhi chiusi che non hanno voluto vedere” che miravano a sotterrare la verità insieme al corpo di Stefano.

E come non soffermarsi a riflettere su come sia stato possibile che tutte quelle persone tra personale medico, paramedico, penitenziario, che hanno visto e visitato Stefano, non si siano accorti di quello che gli era realmente accaduto. C’è un concorso di colpa enorme. E chissà se non si sarebbe potuto salvare, Stefano, se chi avesse visto o voluto vedere quello che era gli era accorso, avesse parlato, avesse agito. 

Intanto tra pochi giorni, il prossimo 7 aprile, è prevista la sentenza del processo proprio sui presunti depistaggi circa il decesso di Cucchi, che vede imputati otto carabinieri accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia e per i quali il pm ha chiesto condanne che vanno da 1 anno e 1 mese fino a 7 anni.

Poca roba. Una manciata di mesi di reclusione, in relazione alla falsificazione anche di atti che hanno complicato gli eventi giudiziarie che hanno fatto assumere alla storia della morte di Stefano Cucchi, le fattezze di un grande rebus di cui tutti conoscevano la soluzione.

Giustizia è fatta.

Ma il dolore resta.

Il dolore di una perdita ingiusta, il dolore di una lotta che ha consumato le vite della famiglia Cucchi, i cui occhi hanno visto e pianto, ma non si sono mai abbassati, davanti alla verità granitica alla quale si sono aggrappati per non cadere.

Un film che era candidato a 12 Oscar ma ne vince solo uno.
È un film che ti si svela piano. Un film affascinate e complesso.
Adattato sull’omonimo romanzo del 1967 di Thomas Savage, racconta  -in oltre due ore – la storia di tre uomini, ognuno dei quali ha un passato che scalpita, che si manifesta attraverso comportamenti le cui motivazioni si comprendono un po’ alla volta.
E poi il ruolo della donna che esce dal binario di colei che sta accanto, e diventa spina nel fianco, ma che su di sé vive un tormento che si trascina dietro e che la rende vittima ed infelice, malgrado un nuovo matrimonio che la tira fuori dal ruolo di vedova e madre.
Il suo passato non è “passato” abbastanza e le crea un disagio costante.

Una sorta di sofferenza attraversa tutto il film nascosta dentro cose non dette, che lo spettatore scopre un passo alla volta scavando dentro ciò che apparentemente caratterizza i personaggi. Inconscio, tutto ciò che non si è rimosso, e poi l’eros raccontato sottilmente e l’aggressività che è figlia diretta della frustrazione.

Per quasi tutta la visione ci si chiede perché il film si intitoli “Il potere del cane” e solo sul finale si scopre avere a che fare con un versetto biblico, con il tradimento e la crocifissione di Gesù.
Ma vi è anche una immagine che si palesa agli occhi di chi “sa guardare” le colline che dominano in Montana.
Un cane si intravede, un cane che fa parte di un branco e che vive pulsioni e spirito di sopravvivenza.

Nel film vi è odio represso e amore nascosto. Vi è vendetta e solitudine, in un film corale nel quale ognuno interpreta paure e insicurezze.

Montana, 1924, nelle pianure del vecchio west, dove due fratelli George (Jesse Plemons) e Phil (Benedict Cumberbatch), completamente diversi in fisico, carattere ed identità, approcciano al cambiamento che sta arrivando, alla modernità che vorrebbe tirarli fuori dalla rozzezza in cui sono cresciuti. Ci sono locande che mostrano tovagliato raffinato, fiori di carta sui tavoli e pianoforti da suonare e musica da ballare.

Phil, il più giovane, il più colto ed il più bello, è anche quello più tormentato, rimasto intrappolato in quel passaggio dall’adolescenza all’età adulta, un tempo impreziosito dalla presenza nella sua vita di un amico, un mentore, un amore, Bronco Henry, che gli ha insegnato a cavalcare, a diventare uomo e a nascondere la sua omosessualità ostentando un machismo che non gli appartiene.
Figura centrale in contrapposizione al fratello, che vive senza slancio e mai fuori dalle righe, uomo mite che sposa Rose (Kirsten Dunst), per non sentirsi più solo,  dopo essersi sentito solo per una vita intera. Lei, in rotta con il cognato, del quale vede solo il narcisismo, e che a sua volta la detesta perché gli ricorda che in lui alberga una parte femminile che ha sempre dovuto nascondere, considerato anche il suo ruolo da “capo branco” nel ranch di famiglia.
E poi Peter (Kodi Smit-McPhee), figlio di Rose, che appare in principio come l’anello debole della narrazione ma che a poco a poco mostra la sua reale natura.
Vittima di una storia finita tragicamente con la morte per suicidio di suo padre che era un alcolista, si trova a dover gestire una nuova vita dove il rapporto non è più a due, con sua madre, ma c’è la presenza di altri due uomini che hanno però posizioni differenti rispetto al suo modo di concepire la nuova esistenza. Prima denigrato e schernito da Phil che offende la sua parte “delicata”, finisce poi sotto la sua ala protettrice, trovando in quell’uomo così scontroso il suo mentore, per poi entrare letteralmente in quello spazio privato ed invalicabile della sua intimità.
Sarà Peter a prendere il ruolo del personaggio brutale e sottilmente sadico. Ben lontano da come il personaggio si mostra allo spettatore sul principio della narrazione, finirà per “intrecciare” ricordi nefasti con quel finale che non ci si aspetta.

La regia è da Oscar, è concepita per porre lo spettatore accanto ai personaggi, nella penombra degli interni e gli esterni luminosi, dietro spighe di grano, in groppa ad un cavallo, tra mosche e mandrie, tra mani insanguinate e corde che si intrecciano, come le vite dei protagonisti. Jane Campion con rigore ci insegna ad osservare, a saper guardare i dettagli, a “farci caso”, a passare dentro le forme rigide di interni per poi rifiatare nei panorami colorati di giallo oro e di marrone, che profumano di terra e di oblio.

 

 

 

Ho pensato a come dare una mano all’informazione russa, ormai  completamente compromessa, considerato che Putin reprime la libertà di stampa e dopo la chiusura anche della famosa testata libera Novaya Gazeta, giornale di Anna Politkovskaja e del Nobel Muratov, che si era distinta negli anni per le coraggiose inchieste sugli oligarchi e sulla guerra in Cecenia.

Ormai a resistere è solo il sito di informazione Meduza, che dal 24 febbraio scorso, segue i principali sviluppi in Ucraina, in Russia e in tutto il mondo, a seguito della decisione di Putin di lanciare un’invasione su vasta scala dell’Ucraina.

E così ho ritenuto giusto prendere un articolo, pubblicato poche ora fa da quella testata online e tradurlo, per dare spazio e voce a chi da solo con molta probabilità non ce la fa a diffondere le notizie in Russia, e forse dovremmo farlo tutti.

Questo l’articolo: 

I PRINCIPALI SVILUPPI DEL CONFLITTO NELLE ULTIME ORE:

  • Sembra un progresso: I colloqui ad Istanbul
    Martedì, l’Ucraina ha offerto alla Russia un periodo di negoziazione di 15 anni per determinare lo stato della Crimea, durante i quali l’Ucraina ha promesso di non utilizzare la forza militare per risolvere il conflitto. Secondo i funzionari ucraini, il conflitto nel Donbas sarebbe gestito separatamente nel corso dei futuri colloqui tra i presidenti dei due paesi. L’Ucraina si è anche offerta di giurare di non aderire alla NATO in cambio di garanzie di sicurezza da un altro paese, come Stati Uniti, Francia, Turchia, Germania, Canada, Polonia o Israele. La parte ucraina ha affermato che qualsiasi modifica allo stato di sicurezza dell’Ucraina dovrebbe essere approvata da un referendum nazionale seguito dalla ratifica della Verkhovna Rada e quindi dalla ratifica del parlamento del paese che fornisce le garanzie di sicurezza.
  • Se riponi la tua fiducia in me, renderò brillante la tua giornata: l’esercito russo dice che ritirerà alcune delle sue forze dalla capitale ucraina in quella che il viceministro della Difesa Alexander Fomin chiama “attività militare drasticamente ridotta” rivolta a Kiev e Chernihiv . L’annuncio fa seguito a un altro round di negoziati tenutosi a Istanbul. La decisione ha lo scopo di “aumentare la fiducia reciproca e creare le condizioni necessarie per ulteriori colloqui per raggiungere l’obiettivo finale di un accordo e la firma di tale accordo”, ha detto Fomin ai giornalisti martedì. I giornalisti a Kiev, tuttavia, riferiscono di sirene antiaeree continue.
  • Euro o niente: il ministro dell’Economia tedesco Robert Habeck ha affermato che il G7 sta rifiutando la richiesta della Russia che i “paesi ostili” paghino per il gas russo in rubli, definendola una “chiara violazione degli accordi esistenti”, che specificano tutti euro o dollari USA come valuta di pagamento . I dati della compagnia di trasporti Gascade hanno mostrato che i flussi di gas sul gasdotto Yamal-Europa, che di solito scorre verso ovest dalla Russia alla Germania ma è fluito verso est da quando la Polonia ha iniziato ad acquistare petrolio dalla Germania il 15 marzo, sono scesi a ZERO mercoledì. Nel frattempo, le consegne di gas dalla Russia all’Europa su altri importanti gasdotti sono rimaste stabili.
  • Un decennio in divenire: Denis Pushilin, il capo dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk (DNR), ha annunciato l’intenzione di prendere in considerazione l’incorporazione della repubblica in Russia, anche se solo dopo che il DNR si sarà assicurato il controllo su tutto il territorio di Donetsk dell’Ucraina. Leonid Pasechnik, il capo della vicina autoproclamata Repubblica popolare di Luhansk, ha dichiarato il 27 marzo che presto si sarebbe tenuto un referendum sull’adesione della repubblica alla Russia, ma in seguito ha respinto i commenti.
  • Un gioco pericoloso: il ministero dell’Interno ucraino ha accusato la Russia di utilizzare le mine navali lasciate in Crimea dall’Ucraina dopo l’annessione russa della penisola per “provocare e screditare l’Ucraina davanti ai suoi partner internazionali”. Il 19 marzo, l’FSB russo ha annunciato che le mine ucraine installate vicino ai porti di Odessa, Ochakiv, Chornomorsk e Yuzhne si stavano staccando dalle loro ancore e “si stavano spostando liberamente verso la parte occidentale del Mar Nero”. Di recente sono state trovate mine alla deriva al largo delle coste della Turchia e della Romania. Le autorità ucraine affermano che queste miniere sono vecchi modelli che il Paese non utilizza più.
  • Il rublo torna su: il 29 marzo, il valore del rublo ha raggiunto il massimo di un mese di 88 per dollaro. L’economista Dmitry Polevoy ha attribuito il rimbalzo a misure come la richiesta del governo che gli esportatori russi vendano l’80% dei guadagni in valuta estera, il recente calo delle importazioni e le misure di controllo valutario della Banca centrale.
  • ‘Fantasie malate’: il generale russo Vladimir Shamanov ha annunciato la cattura di due ucraini accusati di aver torturato prigionieri di guerra russi, Sergey Velichko e Konstantin Nemichev. Diverse ore dopo, Velichko e Nemichev hanno pubblicato un video in cui negano di essere stati catturati e affermano che il video che mostra la tortura del soldato russo è falso. “Gli amici! Sono tenuto prigioniero, prigioniero delle fantasie malate di malati di un paese vicino che ha preso l’Ucraina in tre giorni, che ha preso me e Kostya in ostaggio, che ha abbattuto l’elicottero del comandante del reggimento Azov. Buona fortuna! Vieni su! Non saremo felici di vederti”, dice Velichko nel video.
  • Scrivendo le parole di un sermone che nessuno sentirà: i legislatori di Kiev hanno redatto una legge che vieterebbe di fatto le attività della Chiesa ortodossa russa e sequestrerebbe le sue proprietà in Ucraina. Il disegno di legge prende di mira le attività delle organizzazioni religiose con un centro di governo “in uno stato che è riconosciuto dalla legge come aver commesso un’aggressione militare contro l’Ucraina e/o occupato temporaneamente parte del territorio ucraino”. (Nel 2018, la Chiesa ortodossa ucraina si è formata e ha ricevuto l’indipendenza ecclesiale in una rottura con il Patriarcato di Mosca.)
  • Sai che non è facile, sai quanto può essere difficile: gli osservatori dei diritti umani del  Net freedoms Project hanno rintracciato più di 220 condanne per reati minori in tutta la Russia per “aver screditato le forze armate”, rendendo probabile che la responsabilità per incitamento all’odio per le recidive entrerà presto in gioco. In altre parole, i manifestanti pacifici contro la guerra potrebbero presto essere condannati al carcere per aver parlato male dei militari.

Il chitarrista siciliano sarà impegnato fra l’Inghilterra e l’Italia in “Guitar Solo”, dove presenterà anche i brani tratti da “Music with Guitar”, album realizzato insieme al compositore statunitense Victor Frost

 

A distanza di due anni dagli ultimi concerti a Londra, Birmingham e Manchester, il talentuoso chitarrista siciliano Davide Sciacca, nelle vesti di solista, sbarcherà nuovamente in Inghilterra per poi concludere il suo tour in Italia, a partire da domenica 27 marzo. La prima data si terrà a Hoylake (Birkenhead), a St Catherine and Martina Church, dove Sciacca – con il suo live intitolato A Guitar at the Opera – eseguirà rivisitazioni chitarristiche ispirate ad alcuni straordinari compositori classici del calibro di Bellini, Rossini e Mascagni, ma anche composizioni originali autografate da Victor Frost, con il quale ha realizzato l’album dal titolo “Music with Guitar” pubblicato dalla TRP Music. Successivamente, lunedì 28, sarà la Hope University di Liverpool ad ospitare il musicista siculo per una conferenza/concerto (A Guitar at the Opera) anche in questo caso con le musiche di Vincenzo Bellini, Gioachino Rossini, Pietro Mascagni e Victor Frost. Sempre nello stesso giorno, presso la Manchester Academy 2 di Manchester, si terrà il suo concerto (ovviamente con repertorio classico) di beneficenza per l’Ucraina. Poi, martedì 29, sarà la volta di A Guitar at the Opera al 422 Manchester (Formerly Longsight Youth Centre) e, sempre martedì, Underrepresented Competition a Manchester, presso il Royal Northern College of Music, dove Davide Sciacca suonerà le musiche di Emilia Giulian ispirate ai celebri temi scaturiti dalla fervida fantasia compositiva di Bellini. Per concludere, dulcis in fundo, mercoledì 30 il concerto (A Guitar at the Opera) presso la Sala Armonia Cordium di Napoli, ancora con il repertorio incentrato su Bellini, Rossini, Mascagni e Frost, ai quali si aggiungono Tosti e Denza, un concerto impreziosito dalla presenza del tenore Bruno Sebillo e del pianista Keith Goodman. Dunque, sei appuntamenti di assoluto prestigio che rappresentano una ghiotta occasione per nutrirsi culturalmente di buona e vera musica.

 

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Un mese dall’inizio del conflitto Russia-Ucraina, che doveva essere una guerra lampo da mettere a segno in 72 ore, ed invece l’Ucraina resiste e il mondo è ancora con il fiato sospeso.

Tutto è iniziato con quel discorso di Putin in cui si annunciava un’operazione speciale per “denazificare” l’Ucraina, ma in realtà era una invasione, ripida sulla carta ma fermata invece da una resistenza inaspettata.

Zelensky indossata la maglietta mimetica si trasforma proprio nell’immagine della resistenza di un intero popolo, gli appelli al mondo, il voler restare tra la sua gente. E ancora la comunità internazionale che si compatta, la geopolitica che ridisegna i suoi profili e la minaccia nucleare che fa sempre più paura, di fronte a Putin che sigilla il suo paese dove non si può manifestare, nominare la parola guerra, navigare su internet, perché la verità vista da Mosca sembra davvero essere rovesciata.

E poi gli ucraini che combattono, che fuggono e poi la porta aperta dell’accoglienza.

Un mese che vale un libro di storia, da riscrivere.

Un mese in cui abbiamo imparato a memoria i nomi delle città ucraine sotto assedio, bombardate;  nomi che ignoravamo fino ad un mese fa e che non sapevamo neanche dove fossero posizionate sulla cartina geografica. Oggi di quelle città conosciamo ogni dettaglio, mentre cadono sotto le bombe che hanno distrutto ospedali e teatri e abitazioni civili, mente provano con tutte le loro forze a resistere, mentre le famiglie vengono  sventrate, i bambini destinati ad un futuro difficile, lontani dalle loro case e da una serenità che spetta invece loro di diritto.

Un mese scandito da tensione altissima, con migliaia di vittime e milioni di profughi. La risacca della guerra trascina le vite squassate dal naufragio dell’Ucraina invasa. Valigie gonfie di relitti di una vita che si sa dove e perché è finita ma si ignora dove e quando ricomincerà.
Gente che si sposta su campi minati, donne con i bambini, bambini che si spostano da soli e che rischiano di alimentare la tratta.
Sono stremati e non riescono neanche a provare sollievo. I bambini tacciono. I loro silenzi pare circondarli.
Nelle città bombardate però restano anziani e disabili e chi non ha nessuno.

Un mese di guerra che ha il volto delle donne, che provano a mettersi in salvo, a mettere in salvo.

Abbiamo familiarizzato con parole come bunker, coprifuoco, sirene, contraerea, corridoi umanitari.

Abbiamo conosciuto il presidente ucraino Zelensky che ha dimostrato di avere nervi saldi e capacità strategiche, che ancora oggi invita il mondo a schierarsi dalla parte giusta, a scendere in piazza, a dire no alla guerra.

Un mese di guerra in cui cresce la ferocia russa, così come crescono preoccupazioni e problematiche a livello mondiale che però pesano sulla vita di tutti. Paura per le centrali nucleari, paura di una guerra sul filo del rasoio, paura per un futuro che è difficile da riscrivere.

L’offensiva russa sale di livello ogni giorno di più ma l’Ucraina resiste e Kiev – che è l’obiettivo di Putin –  non si arrende.
Bombe al fosforo. La Russia è in difficoltà e così usa armi vietate dalle convenzioni internazionali, spara sui civili e chiede i pagamenti del gas in rubli.

Un mese di guerra, e di morte; muoiono civili, tanti civili, bambini e giornalisti. Oggi è morta sotto i colpi di artiglieria la giornalista russa Oksana Baulina, che stava documentando la distruzione di Kiev provocate dalle truppe del suo stesso paese dal quale era dovuta fuggire a causa delle sue inchieste anticorruzione.

Un mese che ha cambiato la vita di tutti, un mese in cui ci si sveglia sperando che di sentire che è tutto finito, ma la fine ancora non lascia intravedere la sua ombra.

 

 

 

Sissy Castrogiovanni, torna nella sua amata Sicilia per presentare live il suo nuovo disco intitolato Terra, un album pubblicato dall’etichetta Manū Records e registrato insieme a un nutrito e prestigioso parterre di musicisti blasonati in ambito internazionale come Lihi Haruvi (sax soprano), Tim Ray (pianoforte), Jesse Williams (contrabbasso e basso), Jorge Perez-Albela (batteria e percussioni) e Jamey Haddad (percussioni).  Ospiti Puccio Castrogiovanni (marranzano e zampogna), Claudio Ragazzi (chitarra), Marcus Santos (percussioni) e Fabio Pirozzolo (tamburi siciliani), oltre a un gruppo vocale e a un quartetto d’archi.

Nel tour siciliano, invece, che prevede la prima data giovedì 24 marzo alle 21:00 al “Teatro ABC” di Catania (in seno al Catania Jazz), la seconda al “Teatro Golden” di Palermo venerdì 25 alle 21:00 (Nomos Jazz) e in chiusura sabato 26 alle 21:00 al “Teatro Margherita” di Caltanissetta (Women in Jazz), Sissy Castrogiovanni calcherà il palco assieme a Tim Ray (pianoforte), Jesse Williams (contrabbasso e basso) e Jorge Perez-Albela (batteria e percussioni).

Concepito in pieno solco contemporary jazz, intriso di deliziosi intarsi armonici e inebrianti metriche dispari, Terra è un immaginifico dipinto sonoro dagli effluvi mediterranei, dal calore siculo e africano, un sapido mélange stilistico che accoglie abbacinanti colorazioni tipiche della world music e dell’ethno jazz, pur senza mai prescindere dai preziosissimi elementi di chiara declinazione jazzistica più tendenti alla tradizione. Eccezion fatta per due brani (ri)letti e tratti dal repertorio tradizionale siciliano, il CD consta di composizioni originali figlie della fervida creatività di Sissy Castrogiovanni, anche autrice dei testi e degli arrangiamenti. L’artista siciliana descrive così il mood della sua creatura discografica: «Questo album è un inno alla stupefacente intelligenza e millenaria saggezza della Terra, che risiede anche nei nostri corpi, nelle nostre menti e nei nostri cuori. Un’intelligenza profonda, intrinseca in ogni singola cellula di cui siamo fatti, della quale dovremmo semplicemente imparare a fidarci. In una frase: Terra esorta a fidarci di questa saggezza e ad affidarci alla magia della vita». Terra Tour 2022 è una ghiotta occasione, non solo per i jazzofili della prima ora, di poter assistere a tre concerti dall’alto contenuto artistico, culturale ed emozionale, grazie alle notevoli qualità di Sissy Castrogiovanni e dei suoi tre formidabili partner.

Sissy Castrogiavanni, musicista siciliana completa ed eclettica, dal talento cristallino, compositrice e arrangiatrice ma soprattutto raffinata cantante dal policromatico ventaglio timbrico, brillante nella gestione dell’intonazione, nella cura della dinamica e dell’emissione, Sissy Castrogiovanni è un’artista che grazie alle sue indubbie doti ha condiviso la scena al fianco di vere e proprie star del jazz mondiale come Bobby McFerrin, Jack DeJohnette, Patrice Rushen, Javier Limon, solo per menzionarne alcune. Ha esportato il suo talento a tutte le latitudini, in Europa, negli Stati Uniti e in Sud America. A tal proposito, particolarmente degni di nota i concerti alla “Symphony Hall” di Boston e al Parlamento Europeo. Alla sua intensa attività concertistica, affianca quella didattica come docente di canto presso il prestigiosissimo Berklee College of Music (Boston), per cui oggi è statunitense d’adozione e d’azione. Durante il suo ricco percorso artistico ha ottenuto numerosi consensi e raggiunto importanti traguardi come la vittoria al “Live Art Boston Award” e il piazzamento da finalista all’”International Songwriting Competition”, con un suo brano dal titolo Africannu. Anche la stampa specializzata internazionale, come le famosissime testate giornalistiche Down Beat e Jazziz Magazine, hanno elogiato le qualità di Sissy Castrogiovanni. Invece, per quanto concerne l’attività discografica, Intra lu Munnu è il suo primo album, un lavoro che ha suscitato un grande interesse specialmente da parte della critica musicale statunitense. Inoltre spicca la sua collaborazione con il batterista e percussionista Jorge Perez-Albela, per il quale (da cantante solista) ha inciso il CD The Time is Now (cantando in inglese, spagnolo e portoghese) – e SungDeep in collaborazione con Joey Blake. Da leader, invece, Terra è arrivato al ballottaggio per le “Nomination Grammy Awards 2020” in quattro categorie: “Best Vocal Jazz Album”, “Best Arrangement”, “Best Improvised Jazz Solo” e “Best Engineered Album”.

Rita Mantuano fa diventare i suoi ricordi, un dono.
Scrivendo “Bianca come la luna“, racconta la storia vera che fu di sua nonna Erminia.
Ma lo fa come se fosse proprio sua nonna, a raccontare la sua travagliata vita ai lettori.
Sapiente con le parole, utilizzando un registro medio, facendo ricorso ad un linguaggio chiaro, la scrittrice lascia che a parlare sia sua nonna, così come aveva fatto con lei, e dunque regala quei racconti e i suoi personali ricordi al lettore, che si trova dinanzi ad una storia vera ma che ha dell’incredibile, perché la protagonista del racconto, vive tante vite in una, attraversa vicissitudini difficili da reperire in una vita sola. L’amore però regna tra le pagine del libro, da quello per l’uomo che l’ama e che la rende madre e vedova nello stesso giorno, all’amore per sua figlia che per lei è tutto, dalla violenza subita, alla guerra sino al suo epilogo in una casa di cura, dopo aver anche vissuto il manicomio.

Nel viaggio tra le pagine del libro ci si commuove, ci si immedesima, si empatizza con la protagonista e ci si domanda quanto difficile sia stato per Rita Mantuano raccogliere la vita e la storia di quella nonna alla quale fu molto legata, per trasformarla in un vero e proprio racconto; tutto questo senza pretese, ma con la delicatezza che le vicissitudini accorse ad Erminia richiedevano.
La narrazione parte in medias res e poi fa un salto temporale nel passato remoto.
Dall’ultimo periodo dell’esistenza di nonna Ermina, quello forse più fulgido nella memoria di Rita Mantuano, indietro fin dove tutto ebbe inizio, attraversi una analessi attenta e dettagliata.

Ho apprezzato molto la modalità dell’autrice di sottolineare degli aspetti sociali e antropologici di un tempo andato ma che sono purtroppo ancora molto radicati, come il pettegolezzo, le dicerie, le malelingue. E poi ancora il senso di colpa, perché nonna Erminia vive anche questo sentimento.
Su tutto quella capacità di sottolineare come nel destino di ognuno vi è una linea sottile che separa la cosa giusta da fare, da quella che semplicemente si fa.
Dalle pagine del libro vien fuori il carattere di una donna che nell’inizio del secolo scorso, ha retto i colpi della vita, con fierezza, con tenacia, per poi a tratti arrendersi, accolta dalla consapevolezza di essere umana e fallibile e fragile, come tutti.

Trovo giusto non svelare il perché di quel titolo e l’epilogo della storia, che chiude un cerchio e lascia dentro l’essenza di una vita che è stata degna di essere raccontata.

Molto suggestiva la trascrizione della lettera che Suo nonno Eugenio mandò alla sua amata mentre espletava il servizio militare.
A tratti commovente, così come il racconto che Rita fa della somiglianza della firma di suo nonno che era identica a quella di sua mamma Eugenia, che di suo padre portava il nome e la capacità di amare.

 

Ci proviamo ad ignorare la festa per commemorare la figura della donna, ma ci sfiora sempre l’idea (e meno male) di ciò che una donna rappresenta e della difficoltà che ancora oggi deve affrontare per sgretolare i luoghi comuni, le etichette, le condizioni che la pongono ancora sul gradino più basso. Una donna che parla ci mette molto più tempo per essere ascoltata e per convincere della bontà del suo dire, la sua competenza è ancora la seconda scelta, come si veste fa ancora più notizia di quello che fa e di come lo fa, come se fosse marchiata dalla incapacità di tenere testa nei luoghi che contano, nei dialoghi con gli uomini, o dentro un sistema nel quale possono e sanno essere ingranaggi eccellenti, ma che nessuno “lascia andare”.

Sostitute, spesso di qualcuno, e se difendono la propria bravura e le proprie idee sono chiamate ancora femministe.
Sempre tanta, troppa fatica in più, perché il nome femminile singolare si apostrofa vicino all’articolo, ha bisogno di qualcosa che “tenga unito”, per avere un senso. Ed invece il senso è tutto dentro l’essere, che non ha articoli da coniugare e apostrofi da aggiungere. E la parola “emancipazione” dovrebbe riguardare il modo di guardare al valore dell’altro, non alla difesa di un ideale di vita che è comune ed è privo di genere.
Perché ci si scopre aggressive e stanche, perché la difesa è d’obbligo, la salita faticosa, perché non ci si può mostrare fragili, frustrate o capaci di disappunto. Ed invece l’essere fragili non annienta la competenza. Tutti lo siamo, chi più chi meno, senza distinzione di genere, e il disappunto è una carta usata per contemplare il giudizio critico, non per dissentire a priori.

Che non siamo Cenerentole lo si è capito, ma se lo si vuole essere per scelta, se si vogliono stirare le camicie al proprio uomo, non lo si deve giustificare, né deve significare che ci si è piegate a chissà che cultura patriarcale.

Il coraggio di essere, di scegliere, e di sedere accanto a chi ha le stesse competenze, di vedere riconosciuto un ruolo, a prescindere da come si è vestite, pettinate, truccate. Questo deve contare.

Le donne raccontate dalla cronaca negli ultimi giorni sono donne che imbracciano i fucili, che vengono stuprate negli scenari di guerra, e che poi prendono per mano i loro figli, se li caricano addosso e li mettono in salvo, costi quel che costi, perché se non lo fanno loro, non lo farà mai nessuno. Le donne che sanno quello che devono fare, che soffrono e piangono, ma non sono deboli, e che l’esistenza la mettono in riga come si fa con le trincee. E mentre la diplomazia siede a tavoli importanti in giacca e cravatta, si fa ancora la guerra alle donne, la cronaca le onora solo quando cadono, sotto i colpi della violenza e quasi mai per i meriti che hanno e che meritano, quando li meritano.

Le immagini vanno comprese e discusse, non sempre e solo archiviate.
Non bisogna dimenticare, far finta che non sia successo, o chiudere gli occhi pensando che lontano dal nostro modo di vivere, alcune realtà non esistano.
Guardiamo al loro dolore, quando c’è, con empatia. Guardiamole quando imbracciano le armi, ogni giorno, che non sono quelle fisiche, che feriscono e portano distruzione tutt’intorno, ma sono quelle che vestono mentre si incamminano in un campo minato dell’indifferenza, dove diritti e doveri non coincidono quasi mai e si deve ancora sgomitare, urlare, porsi al centro del mondo che è fatto di dettagli principali ed altri trascurabili, ma che ci chiede di avere senso e valore; quel valore che si siede accanto al domani, quando qualcuno forse si desterà e proverà a non distrarre lo sguardo.

E allora i fiori metteteli nei cannoni, noi non ne abbiamo bisogno, prendete per mano la consapevolezza che c’è una dimensione femminile plurale, che non ha nulla a che vedere con il linguaggio inclusivo ma che pulsa dentro una realtà che ha avuto l’onore di essere abbellita da donne che hanno lottato, cambiato il mondo e che continuano a farlo, anche in posti del mondo dove non esistono feste comandate, donne che non si arrendono, neanche sotto il suono delle bombe.

Il peccato originale lo abbiamo pagato e poi scambiato con il ruolo di “colei che accoglie”, che “porta in grembo”, che “protegge”.
E allora che si condivida un tempo e uno spazio, che si possa camminare a fianco, che ci si inchini davanti alla bravura, che è sostantivo femminile, ma che riguarda semplicemente l’essere umano capace e di buona volontà.