Pubblichiamo una sintesi dell’intervento di Antonino Catania, presidente dell’associazione A testa alta, durante l’evento “Il coraggio di cambiare” dell’8 luglio 2017 dedicato a Salvatore Bennici, l’imprenditore edile di Licata ucciso il 24 giugno 1994 per essersi ribellato al racket delle estorsioni mafiose
Bisogna avere il coraggio di essere cittadini custodi dei beni comuni, cittadini responsabili, cittadini monitoranti contro la corruzione e il malaffare, attraverso i mezzi che l’ordinamento mette a disposizione; cittadini che non delegano le loro responsabilità al politico, a leader di turno, al consigliere comunale, ma che agiscono, si sporcano le mani per determinare il vero cambiamento: un futuro più pulito e dignitoso.
Ci sono storie, poco note o per nulla note, che insegnano come la vera libertà sia quella fondata sul coraggio; sul coraggio civile, sul coraggio di guardare in noi stessi, sul rispetto di sé e degli altri. Storie di cittadini “responsabili”. Cittadini in grado di guardare lontano, dove non arrivano l’indifferenza e l’egoismo.
Solo la forza di un padre, lavoratore serio e onesto, come Salvatore Bennici (ucciso a Licata il 26 giugno 1994 per essersi ribellato al racket di cosa nostra, n.d.r.), poteva rompere il codice della mafia che – attraverso le sue collusioni con la politica, l’imprenditoria e la pubblica amministrazione – tiene in ostaggio le nostre città, l’intera provincia di Agrigento, frenandone lo sviluppo e condizionando l’esistenza dei cittadini, sempre più costretti ad emigrare per trovare un lavoro, in cerca di una vita migliore.
Salvatore Bennici, tra la paura e il coraggio, sceglie il coraggio. Il coraggio civile. Denuncia le intimidazioni ricevute e i danneggiamenti subiti. Gli viene bruciato un escavatore. Non abbassa la testa: va dalle Forze dell’ordine e denuncia. Danno fuoco alla porta di ingresso del suo ufficio. Altra denuncia. Viene lasciato solo da tutti, completamente solo. Nessuno arriva per assegnargli una scorta, una tutela o un presidio. La scorta, Bennici, incomincia a farsela da solo. Per quindici giorni di fila, Bennici e i suoi figli Vincenzo e Agostino si trasformano in guardiani dell’azienda di famiglia. Da soli.
Eppure tutti sapevano che cos’era Licata, che si trovava e si trova – con Palma di Montechiaro e Gela – in un triangolo in cui agiscono le cosche di cosa nostra e della stidda. In questo triangolo, come in molte altre città siciliane, era difficile, se non addirittura impossibile, aggiudicarsi un appalto senza scendere a patti con la criminalità organizzata.
Da meno di due anni (31-07-1992), il consiglio comunale di Licata era stato sciolto per condizionamenti da parte della mafia: per una “chiara contiguità di alcuni amministratori con cosa nostra agrigentina”. E Bennici denuncia, ma viene lasciato solo. Erano stati uccisi da poco altri imprenditori, come Gaetano Giordano (Gela), Paolo e Giuseppe Borsellino (Lucca Sicula) e, prima di loro, Libero Grassi. L’anno prima, nel 1993, erano stati uccisi a Licata quattro pregiudicati e, nello stesso anno, vi era stata una rapina culminata, in pieno centro, in una sparatoria con due agenti feriti e con l’uccisione di due rapinatori armati di mitra e muniti di giubbotti anti-proiettile. Ma Bennici denuncia e viene lasciato solo; solo a combattere la sua battaglia, la “nostra” battaglia. Combatte con quel coraggio di essere ciò che si vuole essere, un imprenditore libero, un cittadino libero da condizionamenti clientelari e mafiosi, e non ciò che una società deviata impone di essere.
Nell’indifferenza generale, Bennici fa la rivoluzione. Una rivoluzione contro quel codice mafioso, contro le leggi innaturali della violenza e della sopraffazione. Esempio cristallino di rispetto per le istituzioni, sopra ogni cosa, Salvatore Bennici andava onorato col suo ricordo, nelle scuole, nelle parrocchie, nelle tantissime realtà associative di Licata. Invece, per un lungo ventennio, abbiamo vergognosamente dimenticato questa grande figura. Per venti anni, qui ha vinto la mafia, che con quell’omicidio “simbolo” voleva tappare la bocca di tutti i licatesi onesti. E c’è riuscita. Qui la mafia vince. Ha vinto conVincenzo Di Salvo, rimosso dalla coscienza collettiva per 50 anni. “Se la sono cercata”, la frase odiosa che ancora circola nella nostra città, purtroppo anche tra quanti, per fortuna pochi, appaiono come persone per bene, buone, impegnate nel sociale, nell’educazione, nella cultura e che sono invece portatori di una cultura pressapochista, becera, bigotta, ignorante. “Se l’ècercata” il sindacalista Vincenzo Di Salvo ribellandosi a Salvatore Puzzo che pretendeva di soffocare uno sciopero per delle legittime richieste dei lavoratori; se l’è cercata Salvatore Bennici che non ha chiesto il permesso al capo cosca, concordando il pizzo da pagare prima di prendersi un subappalto. E noi, licatesi, con il nostro silenzio e la nostra indifferenza, li abbiamo uccisi un’altra volta.
E in questi anni, Cosa nostra agrigentina, nonostante i durissimi colpi inferti ai clan da magistratura e forze dell’ordine, nonostante l’impegno di agenti e carabinieri lasciati con gli organici ridotti e senza mezzi, si è trasformata: si è fatta invisibile, a bassissima intensità di violenza (quasi nulla nel nostro territorio), guadagnando sempre più terreno, acquistando il consenso, perché è riuscita a offrire servizi ai cittadini, agli agricoltori, alle imprese, acquistando la condivisione di colletti bianchi, di insospettabili esponenti della pubblica amministrazione e qualche volta, spiace dirlo, anche di uomini in uniforme. Le armi non servono più. Non servono se c’è un patto, se si è raggiunto un equilibrio nel territorio. Non servono, se le istituzioni, la politica lasciano alla mafia dei canali aperti, lo diceva Paolo Borsellino.
La mafia agrigentina, grazie alla fame e alla povertà, ha creato “accettazione sociale”. Non più armi, summit nelle campagne, nei casolari. Le intese si raggiungono velocemente con whatsapp o addirittura direttamente nei piani alti degli enti, nelle c.d. “cabine di regia”, come ci ricorda il procuratore generale Roberto Scarpinato; cabine in cui si fanno bandi di gara ad hoc, in cui si decidono grandi affari. E i mafiosi ci assomigliano sempre di più: li possiamo trovare nell’antiracket, nell’universo delle associazioni c.d. “antimafia”, nelle white list delle prefetture; li troviamo nelle commemorazioni.
Ecco perché commemorare è importante, molto importante, ma non basta; perché, all’indomani, spenti i riflettori, la stragrande maggioranza di noi torna ad occuparsi degli affari suoi. E questo i mafiosi lo sanno benissimo. Invece, dobbiamo trovare il coraggio di guardare in faccia la realtà, di chiamare le cose con il loro nome. Di capire la differenza tra chi partecipa solo a cerimonie per postare le foto, per crearsi una carriera politica o avere incarichi, e chi ci mette quotidianamente la faccia, nelle denunce e nelle attività di sensibilizzazione. A Licata, dobbiamo avere il coraggio di raccontarci storie come quella di Salvatore Bennici, ucciso qui a due passi dalle nostre case e in un contesto difficilissimo ancora basato sulla regola dell’omertà, una compiacente omertà camuffata da intelligenza.
I cittadini di Licata, quelli della provincia di Agrigento, e soprattutto i giovani di questa terra, non sono più disposti ad essere custodi dell’omertà e del silenzio. E questo la mafia e la sua rete di insospettabili fiancheggiatori devono saperlo in modo chiaro questi vigliacchi che non sanno vivere con dignità, senza imbrogliare e senza rubare il nostro futuro.
Devono sapere che da qui, proprio da quel luogo in cui venne compiuto l’omicidio-simbolo di Bennici, è partita una rivolta sociale collettiva contro la mafia e le sue ramificazioni. E i mafiosi lo sanno che, questa volta, non sono soltanto parole. Lo sanno che c’è un gruppo di cittadini, sempre più numeroso, che rispetta gli impegni. E proprio qui tre anni fa ci siamo dati delle scadenze e le abbiamo rispettate. Devono sapere che i cittadini hanno oggi strumenti in più rispetto al passato per informarsi, capire meglio, ragionare e scegliere; per controllare appalti, affidamenti, gestioni dei rifiuti. Devono sapere che i cittadini hanno anche strumenti per controllare finanche l’operato della Magistratura, perché se ci sono indagini che vanno avanti da troppo tempo e se c’è una irragionevole inerzia del pubblico ministero, i cittadini non devono perdere le speranze: le indagini possono e devono essere avocate dal procuratore generale presso la Corte di appello. Se è vero che Cosa nostra agrigentina è diventata bravissima ad attingere a fiumi di denaro pubblico, riuscendo a condizionare l’assegnazione delle commesse e a inserirsi nella gestione di appalti e subappalti, con la “sistematica compiacenza di esponenti della pubblica amministrazione”, come leggiamo ogni sei mesi nelle relazioni della DIA, è altrettanto vero che i cittadini hanno oggi una disponibilità enorme di dati e informazioni di carattere amministrativo, contabile; possono chiedere atti e provvedimenti alla pubblica amministrazione, dai Comuni alle Asp, passando per le società partecipate e di gestione di servizi, così attuando diffuse forme di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche. Devono sapere che i cittadini hanno deciso di non relegare più alla magistratura e alle forze dell’ordine il compito di ricercare la verità, il compito di contrastare la mafia e la corruzione che alimenta le connivenze mafiose e la povertà. Occorre denunciare. Devono denunciare gli imprenditori onesti se ingiustamente tagliati fuori dagli appalti di lavori, forniture e servizi. Devono denunciare gli agricoltori: l’acqua si paga al gestore e non a chi la ruba. Devono denunciare i negozianti che pagano il pizzo. Il cittadino deve precedere la magistratura. Anche la politica dovrebbe precedere la magistratura e non viceversa. Pensiamo alla messa in sicurezza dai rischi idrogeologici o quello delle bonifiche dall’amianto; pensiamo alle demolizioni dei manufatti abusivi o alla depurazione delle acque: anni e anni di menefreghismo, ma prima o poi i nodi sarebbero venuti al pettine, come si suol dire. Non si può attendere per decenni l’intervento della magistratura di fronte alle macroscopiche irresponsabilità nei riguardi dell’ambiente, delle sue risorse; nei riguardi dei beni comuni, consegnati, se non addirittura regalati, agli speculatori e da questi trasformati in ville, posti auto, centri commerciali.
Allora siamo qui non solo per onorare la memoria di questo grande uomo, ma anche per ribadire un impegno che dev’essere vissuto da ogni cittadino nell’operosità quotidiana, rifiutando ogni forma di ricatto, compreso quello della perdita del posto di lavoro. Avere lo stipendio per intero è un nostro diritto: denunciamo il datore di lavoro che pretende la restituzione in contanti di una parte dello stipendio. Se ci chiedono il voto in cambio di favori o con la promessa di favori (“votami e non ti farò demolire la casa che hai costruito abusivamente” oppure “segui questo corso e appena sarò eletto farò in modo di farti assumere” oppure “crea un’associazione che poi ti farò avere dei contributi non appena sarò eletto”) denunciamo questo candidato, che non è degno di rappresentare niente e nessuno. In tutti i casi, non voltiamoci dall’altra parte se veniamo a conoscenza di un ricatto, perché ad esempio la vittima è un nostro parente, amico, conoscente; sosteniamolo e diciamogli qual è la strada da seguire. È molto importante non lasciarlo solo. Ricordiamoci che anche attraverso piccoli gesti si può sconfiggere la mafia e costruire il cambiamento. Ricordiamoci che non basta parlare di “legalità”, parola molto abusata: la legalità è un mezzo, non un fine. Il fine deve essere la giustizia. Non possiamo parlare di legalità senza affrontare prima la questione dell’uguaglianza; dell’uguaglianzadei diritti e dei doveri dei cittadini di fronte alla legge. Faccio degli esempi. Guai se, una volta eseguiti gli ordini di demolizione contenuti in sentenze definitive di condanna (demolizioni che nessun Sindaco, allo stato della vigente legislazione, era ed è in grado di fermare), le istituzioni tutte, Magistratura compresa, si fermino di fronte ad altri abusi, ancor più eclatanti, commessi in danno dell’ambiente, svenduto per il profitto di pochi e a scapito di tutti noi cittadini. Non esistono cittadini di serie A e cittadini di serie B. Questa più che legalità, sarebbe un’ingiustizia e rischierebbe di spezzare ulteriormente, nella nostra comunità, il legame sociale e di accentuare le distanze culturali ed economiche. Guai se non si portasse a compimento l’indagine per fare luce sulle responsabilità di chi, anche in via sostitutiva, dal Prefetto alla Regione, doveva intervenire una volta scaduti i novanta giorni dall’ingiunzione di demolizione, e non è intervenuto. Doveroso è accertare anche se vi siano state irragionevoli disparità di trattamento tra quanti hanno costruito villette al mare, a meno di centocinquanta metri dalla battigia, e che versano in situazioni assimilabili. Anche in questo caso, i cittadini e la politica devono precedere la Magistratura con le denunce; denunce serie e documentate.
Concludo questo intervento con un invito. La politica locale, in questi ultimi tempi, è particolarmente litigiosa e lontana daiproblemi reali. C’è una Licata che lavora in silenzio e, tra mille difficoltà, manda avanti le famiglie senza farsi distrarre da queste che sembrano delle vere e proprie risse. È il momento di abbassare i toni e di passare al confronto di idee, valori e progetti. Sarebbe un segno di civiltà. Lo dobbiamo a chi, come Salvatore Bennici, si è ribellato a coloro che volevano rubarci dignità e futuro. Lo dobbiamo ai nostri figli.