
“Quando volevamo imparare l’Inglese,
a metà degli anni Cinquanta”.
Verso la metà degli anni Cinquanta, a chiusura del lungo e triste periodo del dopoguerra, si affacciava nell’animo di tutti, con la conquistata libertà, l’auspicata era del benessere, che avrebbe portato nuovi propositi di gioia e felicità.
La gioia di vivere, intanto, si cercava in tutte le occasioni: tavolate in allegria in gruppi di famiglie, si ballava dappertutto, nelle terrazze di San Leone come nei salotti di casa, allargando la sala togliendo tavoli e sedie.
In questa socialità di popolo, giungeva fin qui, da noi, l’onda lunga della cultura americana da esportazione: la musica, le foto sui rotocalchi e il cinema, film in quantità, una finestra sull’America, intendendo gli USA, con la sua grande città sull’Atlantico, e poi il Far West delle pianure dell’Arizona, le vicende dell’oro in California, del petrolio nel Texas, il ragtime di San Louis, pistole e mitra della mala di Chicago
.
Noi cosa c’entravamo con tutto questo? Niente, ma eravamo fortemente affascinati di tutto ciò che era americano.
I cinema erano pieni di gente, le proiezioni andavano avanti a rotazione continua, mentre sottilmente, le vicende narrate, impartivano anche lezioni di vita, trasmettevano gusto e comportamenti di probabili e infondati stili di vita.
Altro desiderio, che si palesava maggiormente nei giovani, era quello di viaggiare, di vedere quest’America, fonte di desiderio, vedere le grandi città, strade larghe, palazzi alti, auto lunghe e cromate, le ragazze tutte belle, bionde, sorridenti, e che denti bianchi!
I giovani volevano vederla quest’America, e parlare con gli americani, e quindi conoscere la loro lingua: l’inglese.
Chi parlava l’inglese nella nostra città ? A chi chiedere per imparare l’inglese ? Certamente ad un “ Professore d’inglese”.
In un gruppo di amici di appena vent’anni, vent’anni di allora, che passavano i pomeriggi domenicali ad ascoltare dal giradischi Louis Armstrong, Perry Como, il melodico Frank Sinatra e il quartetto vocale Four Frashmen, tre di loro, in sintonia sul da farsi e sul loro futuro, decisero di andare a lezione di inglese, “perché quando uno va all’estero – e noi andremo in America – se non conosce la lingua può solo guardare, ma muto come un pesce”.
L’insegnante d’inglese individuato, noto e conosciuto perché dai suoi banchi di scuola erano passate generazioni di studenti agrigentini, abitava in via Duomo e vi andarono di prima sera, mentre la città era investita da un forte vento freddo di tramontana.
Andarono così, senza preavviso, a cercare il portoncino e il campanello all’inizio della salita, stretta e ripida, con il vento che in quella gola prendeva potenza e fischiava.
Salirono tre gradini, alti per pareggiare il dislivello della strada,e premuto il campanello elettrico dal suono discontinuo, subito una cordicella all’interno fece scattare la serratura.
In alto alla scala, anch’essa ripida di alti gradini, apparve in controluce il professore, appena anziano, ma energico nell’approccio e visti i tre restò a guardare, ma voleva anche sentire.
Dissero: “siamo tre giovani, vorremmo studiare inglese, quanto costa” ?
“Come, come, cosa ? Venite su, venite”.
La domanda era stata posta proprio male.
Salirono, entrarono, si sedettero in un salottino di vimini e dissero più compiutamente: “era che volevamo viaggiare e bisogna conoscere l’inglese, l’inglese perché è la lingua di tutta l’America, e per non fare i pesci…”.
Già, come italiano non c’è male…pensò il professore, e disse:”voi, intanto, di inglese cosa conoscete” ?
“Poche parole, come…Goodbye, How are you, Good morning, Miss, e dalle canzoni i titoli: Star dust, Cheek to cheek, My funny Valentine, You are my destiny, Body and Soul, I love”.
“Effettivamente è poco, non basta”, disse il professore.
“Ecco – disse ancora – studiare la lingua significa studiare la grammatica, la struttura, la composizione, come si scrive, come si parla, la pronuncia, che non ha sempre il suono gutturale, all’americana che a voi tanto piace…bisogna studiare, capire la società che in quella lingua si esprime, i costumi, i modi di dire, la letteratura, poesia, teatro…”.
Il professore ora si allargava un po’ troppo, i ragazzi erano già spaventati dai tanti e seri propositi. Il discorso continuò con rari interventi dei ragazzi che si dichiaravano, subito, d’accordo su tutto…
Parlarono d’altro in modo cordiale, mentre il più curioso con gli occhi girava per la stanza: vi era una libreria aperta, con romanzi e libri vari, una enciclopedia, un fascio di riviste, un calendario scaduto, a fianco un grammofono, nel lato opposto una vetrinetta con vasi e bicchieri, un quadro alla parete di un austero personaggio, forse un antenato, incastonato in una pesante cornice vagamente liberty.
E poi, nella parete di fronte alla porta d’ingresso, una bussola a vetri, aperta su una stanza vasta, la sala da pranzo, al centro la tavola apparecchiata per la cena.
I giovani, con le loro poche parole da dire ringraziarono e salutarono in modo ossequioso. Avevano capito tutto, ora seriamente ci avrebbero pensato. Fecero le scale frettolosamente, un ultimo saluto, quasi un’ inchino e fuori dall’uscio si avviarono un po’ confusi, anche per il costo delle lezioni, che sia pur molto modesto, mise in crisi i giovani speranzosi, perchè di fatto erano disoccupati.
Ciò mandò in frantumi la speranza di imparare l’inglese, che volò via con un soffio di vento di tramontana.
“Hai una sigaretta ?” “Ne ho due e siamo in tre”. “Accendi intanto…”.
Beata leggerezza dei vent’anni, rieccoli sicuri e gagliardi che sfumazzando si persero nella folla di via Atenea.
Ora, la felice occasione di intravedere quella tavola apparecchiata come una visione, perfetta come una scena da teatro, non può svanire e chiudersi nelle pagine in questo breve racconto, ritorniamoci per un rivisita, che è poi il pretesto di questo racconto.
Ad essa vogliamo tornare, con lo spirito acuto dell’osservazione, in quella stanza con il suo silenzio o con i pochi rumori convenzionali, con la presenza statica dei mobili, il racconto continuo dell’età degli oggetti e degli arredi, nel rilievo delle penombre e dei chiaroscuri. Così da percepire, anche e appena, i contenuti spirituali di una visione sospesa, magica e colta in una fredda sera di ventosa tramontana, a metà anni Cinquanta
Dal soffitto alto pendeva un lampadario a calotta che lasciava le pareti in penombra e illuminava con forte fascio di luce la tavola, abbagliava il candore della tovaglia, i piatti bianchi, le posate argentee e rilucenti, due calici trasparenti e senza ombra, e al centro, perfetta nella sua forma, forte del suo rilievo estetico, la bottiglia di vino.
Panciuta in modo armonico, come pregna del suo contenuto, elegante dal collo lungo e chiusa in alto da una fera di cristallo, (vetro, pardon) la bottiglia di vino irradiava favolosi riflessi di rossi e di bruni. La sua presenza dava dignità domestica e aggiungeva qualcosa di rituale, di mistico raccoglimento, come nelle splendide tavole apparecchiate delle sacre cene di Veronese e Tintoretto.
Era l’ora della cena, il professore prendeva posto seduto con le spalle alla parete di fondo, a sinistra il balcone dai vetri tintinnanti per il forte vento, mentre poteva scorgere in strada, da lontano, qualche raro passante che saliva piegato in due controvento. I mobili della stanza erano il buffet e il controbuffet, ambedue pieni di preziose cristallerie, mai o poco usate, alcuni quadri alle pareti tra cui il tre colonne, il più noto dei templi dorici. Intorno, in cornici argentee, i volti di congiunti perennemente sorpresi di guardare la quotidiana scena domestica; da una piccola cornice un giovane sorrideva, anche se fermato dall’istantanea in precario e scomodo equilibrio.
Erano le venti, il pendolo batteva, la pentola bolliva;”Radio sera” lanciava la sua sigla meccanica e senza armonia, lo spiker imponeva urgenti titoli di cronaca, mentre la sigla ora si strozzava in chiusura. A prestar un po’ di attenzione alla radio cosa diceva ? De Gasperi ritornava in America, USA, per poi andare in Germania da Adenauer a parlare di Europa Unita, De Gaulle andava già per conto suo .Altri nomi ricorrenti: Andreotti, Fanfani, Gonella, Pastore. Altre notizie dicevano di lavori pubblici, strade, autostrade, ponti, acquedotti. Poi un feroce delitto, e in chiusura una grande festa di beneficenza.
L’attenzione scemava, la radio continuava a gracchiare per conto suo, il professore ora pensa ai fatti suoi, e alla parca cena.
Perché parca ? Perché viene in mente parca. Forse perché l’ambiente è sobrio e misurato. Quella cena da anni Cinquanta è invece giusta, potrebbe essere un modello per i dietologi degli opulenti futuri decenni di consumismo e di frettolosi e rumorosi pasti tra pranzi e cene.
Allora, un piatto di cicoria fumante con un po’ del suo brodo, un filo d’olio specchiante alla forte luce del lampadario pensile; due merluzzi con la pinna finale in bocca e l’occhio vitreo luccicante in quell’ultimo riflesso. Dei due pesci, teneri e bianchi, poco dopo rimanevano sul piatto le due teste mozzate e la lisca con l’ultima pinna frastagliata a fianco. Per frutta una mela, o meglio una fetta di melone giallo, detto gelato, di quelli che durante l’inverno stanno appesi fuori dal balcone, come quelli che ora, fuori dal balcone, dondolavano al vento di tramontana.
Dopo cena la lunga lettura del giornale, tutto il giornale, passo, passo, dallo stato generale degli affari del mondo, a quelli del Paese, Regione, Provincia e locale.
Notizie tristi in maggioranza, dettagliatamente raccontate, e poi notizie vaghe, inutili, deprimenti.
Il professore finiva di leggere a sera inoltrata, all’inizio della notte. Nel silenzio profondo si avvertiva ancora un lontano refolo che flautava per vicoli e stradine e il costante ticchettio del pendolo che spingeva le lancette verso le ore notturne.
Piegò l’ultima pagina del giornale. Disse: mah! un po’ sconsolato di tanta triste cronaca.
Pensò a quei tre giovani che non avrebbe più rivisto, quella visita che già sembrava lontana.
Si alzò, era ora di andare a dormire; spense la forte luce ed entrò in camera nel chiarore soffuso di un’abat-jour di seta azzurra; vide sua moglie che già dormiva.
Buona notte disse tra se e se.
Toto Cacciato