Maggio 2023 - Pagina 6 di 42 - Sicilia 24h
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Martedì 30 maggio alle ore 9.30 presso l’AUDITORIUM DELL’Istituto Professionale di Stato per i Servizi Commerciali, Enogastronomici e per l’ospitalità alberghiera “N. Gallo” di Agrigento avrà luogo la Cerimonia di premiazione del concorso “Damarete” da 2500 anni contro la violenza giunto alla undicesima edizione.

Il concorso destinato agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado della provincia di Agrigento e di Caltanissetta si pone come obiettivo la promozione di una cultura della Non-Violenza fra le giovani generazioni.

Il Concorso è istituito dall’associazione “Focus-Group” Onlus, e dal centro Antiviolenza e Antistalking “Telefono Aiuto

Una Commissione ha visionato tutti gli elaborati.

Questa l’UNDICESIMA EDIZIONE del concorso Damarete ha quest’anno ha visto la partecipazione di:

12 ISTITUTI SCOLASTICI FRA IL PRIMO E IL SECONDO GRADO DELLA PROVINCIA DI AGRIGENTO E DI CALTANISSETTA

PER UN TOTALE DI CIRCA 200 STUDENTI E UNA PRODUZIONE DI 105 LAVORI

E SONO 46 GLI INSEGNANTI CHE HANNO PROMOSSO E COLLABORATO ALLA REALIZZAZIONE DEI LAVORI

 

Anche quest’anno verrà attribuito il premio Damarete riservato agli insegnanti, con l’assegnazione della targa intitolata alla prof.ssa Maria De Castro Patti, scomparsa nel 2008, insegnante di lettere alle scuole medie, donna dalle spiccate doti umane e professionali e generosa benefattrice del Centro Antiviolenza e Antistalking Telefono Aiuto per avere donato i locali e contribuito fattivamente ed economicamente alla crescita del Centro.

È stato istituito questo riconoscimento al fine di gratificare l’insegnante particolarmente impegnata in azioni positive contro ogni forma di disagio, violenza e discriminazione, riuscendo a coinvolgere positivamente gli alunni in un percorso di conoscenza e prevenzione della violenza di genere.

 

Verrà, inoltre, assegnato un riconoscimento riservato ai dirigenti scolastici alla memoria del dott. Giannunzio Gatto, neuropsichiatra infantile dell’Asp di Agrigento che sin dall’apertura del centro antiviolenza telefono aiuto ha collaborato attivamente alla sensibilizzazione e formazione degli operatori del territorio.

Nel corso della cerimonia saranno premiati, secondo le varie sezioni del concorso, i vincitori, verranno consegnati gli attestati ai docenti che hanno accompagnato e stimolato gli alunni durante tutto l’anno scolastico nella creazione di tutti gli elaborati che si ricorda sono inediti e infine le targhe di partecipazione alle scuole che hanno partecipato.

Presenta la cerimonia Angelo Palermo

Si sono dati appuntamento a Santa Elisabetta, in Piazza San Carlo, per l’ennesima iniziativa della grande campagna Nazionale Ri Party Amo che il WWF ha organizzato per pulire e recuperare 20 milioni di mq di territorio in tutta Italia.

Ma, in realtà, hanno trovato soltanto alcuni rimasugli di ubriaconi del sabato sera. Poi il nulle. Un paese pulito.

Né plastiche, vetri, lattine, cartacce, sacchetti, come si vede in troppi paesi della Sicilia.

Arrivano fino al Monte Cheli, al centro del paese, per ammirarne le specificità storiche, archeologiche, mitologiche e geologiche, e niente immondizia. Stupendi, i cittadini di Santa Elisabetta.

Ad accogliere i volontari del WWF Sicilia Area Mediterranea, con il presidente Giuseppe Mazzotta in testa, c’erano il sindaco, Mimmo Gueli, con la sua vice, on. Giovanna Iacono, il presidente dell’Associazione locale Hosaycos, Francesco Rizzo, e quello dell’associazione Ada, Calogero Sammartino, con l’esperto Salvatore Cumbo e la geologa Greta Militello. Della delegazione WWF faceva parte anche l’arch. Alberto Di Gaetano, project manager di un Erasmus+ con la Fundacja mare, per scambi esperienziali sul volontariato in Polonia e in Italia.

L ‘ospitalità si è subliminata in un aperitivo offerto a tutti i volontari, scherzosamente definito “tarallucci e vino”, che ha confermato l’alto senso di civiltà che questo popolo possiede.

Continuano questo pomeriggio gli spettacoli del Carnevale di Sciacca nel nuovo percorso di via Allende. Dopo le sfilate dei carri e l’esibizione sul palco dei gruppi mascherati di questa mattina, la manifestazione carnevalesca riprende alle ore 16:00 con la sfilata dei carri allegorici e dei gruppi mascherati. A fare da apripista sarà, come al solito, il carro di Peppe ‘Nnappa, Re del Carnevale. A seguire oggi, ci sarà il carro: “Una nuova Primavera”. Terzo carro a sfilare sarà “The show must go on”.
Dopo di lui sfilerà “Lasciatemi fare” e quinto carro a farsi ammirare sul percorso della Perriera sarà “Regeneration, l’arca della salvezza”. A concludere le sfilate di oggi sarà il carro “Metaverso, il mondo che vorrei”. Insieme a loro sul percorso e poi sul palco ci saranno anche i gruppi mascherati collegati ai carri.
A condurre lo spettacolo saranno Roberta Mandalà e Giovanni Bilello e successivamente, dopo le 20,30, ci saranno gli interventi di Sasà Salvaggio e Stefania Orlando. Anche oggi le performance dei gruppi e la bellezza dei carri saranno esaminate dalla giuria nominata dal sindaco Fabio Termine.
A presiedere il team di esperti sarà il dirigente comunale Salvatore Gioia. I componenti saranno chiamati a valutare i cinque carri in concorso in questa edizione determinando il vincitore. Ecco i nomi e le categorie che giudicheranno:
L’architettura: Cristiano Serra,Calogero Cucchiara;
I movimenti: Salvatore Paolo Gioia,Fortunato Accidenti;
L’effetto Scenico: Felice Alba, Giancarlo Guarino;
L’inno: Silvana Mistretta, Antonio Pietro Curcio;
Le coreografie:Giovanni Cusumano,Accursia Friscia; Costumi: Alessia Raso, Federica Grisafi;
Il copione: Giuseppe Santangelo, Ignazio Eduardo Raso ed infine l’allegoria: Salvatore Galluzzo, Lilia Ricca.
Ricordiamo che agli ingressi del percorso ci saranno quattro biglietterie che resteranno aperte fino alle 23:30

Oggi Solennità della Pentecoste, l’Arcivescovo di Agrigento, mons. Alessandro Damiano, ha consegnato il messaggio alla Chiesa Agrigentina.

Ecco il testo”:

“Fratelli e sorelle, «il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13)!

Queste parole introducono l’epilogo della lettera ai Romani, nella quale l’apostolo Paolo descrive il valore, la portata e le implicanze della vita nuova nello Spirito. Le prendo volentieri in prestito, perché compendiano perfettamente quanto ho in cuore di condividere con voi in questo messaggio.
L’«unità dello Spirito» e la «misura del dono di Cristo»
La pace, che è il «vincolo» per mezzo del quale dobbiamo «custodire l’unità dello Spirito» (cf. Ef 4,3), trova infatti la sua «misura» nel «dono di Cristo» (cf. Ef 4,7). Questo dono non si esaurisce unicamente nei carismi che lo Spirito suscita in ogni battezzato né si può delimitare ai soli ministeri con i quali egli anima la vita della Chiesa. Va ben oltre; e verso questo “oltre” ci proietta e ci sospinge.
Per esprimere la sovrabbondanza della «misura» del dono, San Paolo parla innanzitutto di una «pienezza di tutte le cose», in forza del mistero dell’incarnazione e della redenzione (cf. Ef 4,10); fa poi riferimento a un «uomo perfetto», ossia a una umanità che va raggiungendo il suo pieno compimento, attraverso la conformazione alla statura stessa di Cristo (cf. Ef 4,13). È come se l’Apostolo volesse rilanciare la posta in gioco della Chiesa. Essa non può accontentarsi di allargare i suoi spazi e aumentare i suoi numeri, ma deve orientare ogni persona e ogni cosa a Cristo, capo di un unico corpo che eccede i suoi conYini, per raggiungere le dimensioni dell’intera creazione (cf. Ef 4,15-16).
Anche l’esortazione ad abbandonare l’uomo vecchio e rivestire il nuovo (cf. Ef 4,22-24) dobbiamo collocare in una visione “cattolica” e, pertanto, del tutto universale e tutt’altro che individualista e autoreferenziale. Non possiamo cioè restringerla al livello del singolo fedele o circoscriverla a quello della sola comunità dei credenti. Dobbiamo piuttosto estenderla a tutta l’umanità, che nella speranza è già stata salvata (cf. Rm 8,24) e i cui “gemiti interiori” (cf. Rm 5,22-23) vi ho chiesto ripetutamente di raccogliere come cifra di un autentico impegno ecclesiale, capace di dare alla speranza cristiana concretezza ed efYicacia.
Sono posti così i tre termini contenuti nell’augurio con cui ho voluto cominciare questo messaggio: l’abbondanza, che riguarda l’estensione della vita e della missione della Chiesa; la speranza, che è il fondamento reale del rinnovamento della storia a cui la vita e la missione della Chiesa devono tendere; l’azione dello Spirito, senza la quale tutto questo si riduce a un’utopia e resta un ideale.
Chiesa della Trinità e dell’Eucaristia, della Pasqua… e della Pentecoste
La Chiesa — che nel mistero della Trinità e dell’Eucaristia trova la sua sorgente e il suo modello, e con l’esperienza della Pasqua apprende lo stile delle sue scelte e delle sue azioni — dall’evento della

Pentecoste trae Yinalmente la forza che incessantemente la muove verso il raggiungimento della «pienezza di tutte le cose» (cf. Ef 4,10) e verso la realizzazione dell’«uomo perfetto» (cf. Ef 4,13). E nella convergenza di queste tre direzioni — come in un trittico — possiamo adesso completare l’affresco iniziato nel messaggio del Corpus Domini 2021 e proseguito in quello della Pasqua 2022.
Nel primo ho posto in risalto il valore dell’unità, intesa — in una prospettiva trinitaria ed eucaristica — come «apertura all’alterità e integrazione della diversità», in contrapposizione all’indifferentismo e all’autosufYicienza che si riscontrano sempre più frequentemente nella mentalità corrente e che si riYlettono, a livello teorico e pratico, anche in ambito ecclesiale. Per superare questo equivoco, ho suggerito di considerare l’unità come presupposto e non come prodotto. Se infatti ci illudiamo di doverla costruire con i nostri sforzi, non ci riusciremo mai; se invece ci sforziamo di riscoprire ciò che già ci unisce, allora possiamo farcela. Su questa convinzione si innesta l’invito a raccogliere i “gemiti dell’umanità e della creazione”, espliciti o latenti, manifestati con linguaggi usuali o formulati con espressioni non convenzionali. Solo a partire da questi “gemiti”, senza tralasciarne alcuno e riconoscendo in ciascuno l’invocazione della stessa umanità che ci accomuna e ci interpella, l’ideale della comunione può diventare sempre più reale, concreto e fecondo.
Nel secondo messaggio ho cercato di delineare alcune dinamiche ambigue che, nel tentativo di attuare questo impegno, emergono già dall’esperienza pasquale degli stessi discepoli e di cui dobbiamo prendere consapevolezza, se vogliamo che lo sforzo giunga a buon Yine: il bisogno di novità deve scontrarsi con le resistenze degli schemi mentali acquisiti e delle abitudini consolidate; l’audacia del coraggio deve fare i conti con paure che possono arrivare anche a paralizzare; la fede deve vincere il rischio di un’incredulità tanto più pericolosa quanto più inconsapevole o camuffata. Da questo volto della “Chiesa della Pasqua” — bello nella misura in cui essa impara a riconoscere e superare ciò che di fatto la deturpa — ho tirato fuori tre direttrici che devono caratterizzare lo stile tipicamente ecclesiale e che vi ho consegnato anche come espressioni effettive di sinodalità: la sYida del cercarsi, l’arte del raccontarsi e la disponibilità a lasciarsi precedere.
Soffermandomi ora sulla “Chiesa della Pentecoste”, vorrei dare un contenuto a queste tre direttrici, per indicare in che modo possiamo metterci veramente in atteggiamento di “uscita”, così da guardare e tendere sempre più verso quel compimento a cui il Risorto ci orienta. Per farlo, proverò a cogliere il valore di alcuni particolari dell’evento della Pentecoste e a metterli in relazione con le loro ricadute pratiche nella vita delle prime comunità cristiane, seguendo idealmente il loro sviluppo nella narrazione degli Atti degli Apostoli.

Con un cuore solo e un’anima sola
Il primo e più evidente particolare lo troviamo nel momento stesso in cui lo Spirito irrompe nel cenacolo: «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,3-4).
In questa descrizione troviamo chiaramente un duplice riferimento veterotestamentario: il primo ci riporta al Sinai, sul quale «era sceso il Signore nel fuoco» per parlare con Mosè e consegnargli la legge dell’alleanza per il popolo (cf. Es 19); il secondo ci rimanda a Babele, dove Dio confuse l’unica lingua degli uomini perché la loro incomunicabilità ridimensionasse il loro delirio di onnipotenza (cf. Gn 11,1-9). L’accostamento di questi due riferimenti e la loro rilettura alla luce degli eventi del cenacolo ci dice che possiamo orientare nuovamente la storia verso il suo compimento solo se permettiamo allo Spirito di farci interiorizzare quell’unica Parola capace di ricomporre ogni forma di disgregazione dell’esistenza e ogni tipo di frammentazione dei rapporti.
Possiamo dunque «conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3) a condizione di non ridurre illusoriamente questo vincolo all’assenza di incomprensioni, che è di fatto impossibile. La pace, dono del Risorto, consiste infatti nella capacità di superare le incomprensioni, che altrimenti ci dividerebbero, nella logica del Vangelo. E questo non può avvenire se non mediante la comprensione di «tutta la verità», di cui lo Spirito Santo — con i suoi tempi che non sempre coincidono con i nostri — ci rende capaci, secondo la promessa di Gesù (cf. Gv 16, 12-13).
—2— La reazione istintiva a questo primo segno della Pentecoste è lo stupore, che innesca in tutti quelli che lo provano una nuova ricerca di senso. Luca utilizza diverse espressioni per sottolineare questo fatto: dice che la folla è «turbata» (At 2,6) e che tutti sono «stupiti» e «fuori di sé per la meraviglia» (At 2,7); aggiunge inoltre che tutti, «stupefatti e perplessi», cominciano a chiedersi cosa tutto questo possa signiYicare (cf. At 2,12). Da questo stupore e da questo allargamento di prospettive sul signiYicato della pace dobbiamo ripartire, piuttosto che continuare a scandalizzarci e piangerci addosso per tutte le fratture che non siamo più in grado di risanare. Fino a quando continueremo a ribadire le nostre ragioni senza voler sentire quelle degli altri e Yino a quando non sapremo operare un sano discernimento, ricomponendo le varie posizioni nella carità di Cristo, la pace resterà solo un’illusione e la concordia una falsa speranza.
Il resoconto della vita della prima comunità cristiana, offerto da At 4,32-36, ci informa invece che «la moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola», cioè che tutti erano concordi e vivevano in pace. E non perché fra loro mancassero i contrasti e i dissapori, ma perché questi costituivano l’occasione di un confronto maturo per compiere scelte più oculate, anteponendo un bene più grande a un interesse minore. Così — solo per citare qualche esempio — la decisione di istituire i diaconi e di introdurre una prima distinzione di ruoli all’interno della comunità nasce da un disagio, inizialmente sfociato in polemica, ma poi risolto attraverso l’ascolto delle varie istanze e il riconoscimento tanto del primato della Parola quanto di quello del servizio (At 6,1-7). Anche la prima missione ai pagani è la conseguenza di una gelosia, che spinge i giudei a riYiutare la predicazione e che i discepoli, anziché farne un pretesto per forzare barriere ostinate a restare chiuse, trasformano nella gioia di potersi rivolgere a porte disposte ad aprirsi (cf. At 13–14). Per non parlare della controversia — non solo disciplinare ma prima di tutto dottrinale — riguardo alla circoncisione dei pagani, che i capi della Chiesa risolvono dandosi appuntamento a Gerusalemme per quello che potrebbe essere considerato il primo “concilio” della storia cristiana, attivando quella prassi sinodale di cui ora, a fatica, stiamo cercando di riappropriarci (cf. At 15).

Per un’autentica esperienza di fraternità
Dal modo radicalmente nuovo di intendere la pace scaturisce un nuovo modo di concepire e praticare la giustizia. E questo risalta sia dalla risposta della folla al discorso di Pietro e degli Undici il giorno stesso di Pentecoste (cf. At 2,14-41) sia dalla descrizione dei rapporti che, a partire da quel giorno, si instaurano tra i credenti (cf. At 2,42-47).
La prima predicazione fuori dal cenacolo collega direttamente l’annuncio di Cristo morto e risorto alla responsabilità collettiva che, in quanto tale, chiama in causa quella personale. La colpa di tutti non è di nessuno, ma di ognuno, perché ogni singola parte è responsabile dell’intero. Questa consapevolezza provoca uno sconvolgimento interiore, dal quale deriva un sincero bisogno di cambiamento: «All’udire queste cose — riferisce il testo degli Atti — si sentirono traYiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?” E Pietro disse loro: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare» (At 2,37-38).
La ritrovata appartenenza al corpo sociale si manifesta, subito dopo, nelle dinamiche della vita comunitaria. L’assunzione della propria responsabilità, così come genera la condivisione della colpa comune, fonda anche la compartecipazione al bisogno degli altri. E così ognuno mette in comune ciò che possiede, perché nessuno sia bisognoso (cf. At 2,42-47; At 4,32-35).
La giustizia non può nascere da una legge che obbliga dall’esterno, ma deve essere la logica conseguenza di un sentire unanime, in forza del quale il singolo individuo si riconosce membro di un unico corpo, secondo la celebre immagine paolina. E l’ingiustizia, di riYlesso, non può ridursi alla violazione di una norma, da punire con una pena, ma si radica nella perdita dell’appartenenza, che conduce alla morte. Il noto caso di Anania e SafYìra, che muoiono per aver trattenuto parte di quanto avrebbero dovuto condividere, ne costituisce la palese dimostrazione (cf. At 5,1-11).
Ma anche la vicenda di Stefano (cf. At 6,8–8,1) è indicativa a riguardo; anzi, ne mostra risvolti ancora più complessi e ricadute ancora più impegnative. La sua uccisione è frutto di un’invidia e di un risentimento invincibili, che attivano ed esasperano la spirale della menzogna e della violenza. In questa spirale l’ingiustizia si materializza, ma non riesce ad avere l’ultima parola sul destino della
—3— storia. Gli accusatori di Stefano — come già era successo con Gesù — non riescono a resistere alla sua sapienza e restano irritati dal suo discorso, col quale li richiama ad assumersi la loro responsabilità. Accecati dal male, istigano la folla a testimoniare il falso contro di lui e riescono a toglierlo di mezzo, pensando di poter eliminare così la causa del loro disagio. Ma Stefano va avanti per la sua strada e offre la vita a conferma della sua testimonianza, diventando il primo martire cristiano per la fede e la giustizia e aprendo la lunga schiera di santi che, nel tempo, continuano a cambiare il mondo con il loro sacriYicio.
Proprio il martirio di Stefano inaugura il tempo della persecuzione della Chiesa e della dispersione dei discepoli, che diventa un’opportunità non solo perché permette la diffusione del Vangelo nei luoghi dove chi scappa trova riparo, ma anche perché costringe la comunità a estendere il suo senso di appartenenza oltre i conYini — ormai diventati troppo stretti — di Gerusalemme.

Nel duplice movimento dello Spirito
Il racconto della Pentecoste era cominciato precisando che «si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2,1); dopo i primi risvolti, i “tutti” sono diventati molti di più e il luogo non è più lo stesso. Al gruppo degli Undici si è unito Paolo, che da persecutore della Chiesa è diventato l’apostolo delle genti; i discepoli non si riescono più a contare, perché il Signore ne ha aggiunti a dismisura, di predicazione in predicazione; e dalla Giudea, dalla Galilea e dalla Samaria — le terre che Gesù stesso aveva attraversato e dove all’inizio gli apostoli si erano spinti — i cristiani si ritrovano nella Macedonia, in Grecia, nell’Asia minore e addirittura a Roma, nel cuore dell’impero.
La dispersione diventa l’occasione per diventare testimoni «Yino ai conYini della terra» secondo il mandato del Risorto (At 1,8), ma anche per apprendere un nuovo modo di abitare il mondo e costruire la storia, innestandovi, insieme al Vangelo, quei concetti di pace e di giustizia che intanto si andavano consolidando e che andavano dimostrando la ragionevolezza e la fecondità del Vangelo stesso. Se, a Babele, parlare una sola lingua era la strategia per non disperdersi su tutta la terra e creare un popolo sempre più chiuso e sempre più potente (cf. Gn 11,1-9), a partire dal cenacolo, parlare altre lingue e disperdersi dovunque diventa il mezzo per diventare “fratelli tutti”, salvati nella stessa speranza.
La “Chiesa delle Pentecoste”, uscendo dai suoi spazi sia Yisici sia mentali, utili per ritrovarsi ma che a lungo andare possono diventare trappole e trasformarsi in gabbie, impara a parlare i linguaggi degli uomini e delle donne che abitano in ogni angolo della terra e là vivono le situazioni più disparate. Si stupisce per il fatto che lo Spirito scenda sui pagani, non quando i tempi sono maturi secondo i suoi parametri, ma mentre ancora avviene l’annuncio, come nel caso di Pietro in casa di Cornelio (At 10,44-48). Né si scandalizza che i discepoli siano chiamati per la prima volta “cristiani” ad Antiochia di Siria, nell’incontro con un altro universo culturale e religioso che è quello dei Greci, piuttosto che a Gerusalemme, la città santa dove tutto era cominciato. Ad Antiochia di Siria, del resto, per la prima volta si crea una movimento in entrata e in uscita, attraverso Barnaba che la Chiesa di Gerusalemme invia e Saulo che Barnaba va a cercare per condurvelo; ma anche attraverso profeti provenienti dalla Chiesa Madre, che stimolano e incoraggiano la sollecitudine tra le varie Chiese (cf. At 11,19-30).
La “Chiesa della Pentecoste” si lascia in tal modo coinvolgere nel duplice movimento centripeto e centrifugo dello Spirito, che rimanda a un unico centro non per annullare ciò che è disgregato e frammentato, ma per farlo convergere verso la sua pienezza. E da questo esercizio impara un modo nuovo di farsi accogliente, superando gli stessi valori antropologici dell’integrazione e dell’inclusione per diventare — secondo la sua indole speciYica — arteYice di comunione.
Si realizza così quanto Doroteo di Gaza — monaco del VI secolo — rafYigura con un’immagine molto signiYicativa: «Immaginate che il mondo sia un cerchio, che al centro sia Dio, e che i raggi siano le differenti maniere di vivere degli uomini. Quando coloro che, desiderando avvicinarsi a Dio, camminano verso il centro del cerchio, essi si avvicinano anche gli uni agli altri oltre che verso Dio. Più si avvicinano a Dio, più si avvicinano gli uni agli altri. E più si avvicinano gli uni agli altri, più si avvicinano a Dio» (Istruzioni, VI).
—4— Lo slancio inarrestabile della Chiesa della Pentecoste
Questo slancio inarrestabile della “Chiesa della Pentecoste” vorrei che fosse anche il nostro. E a tutti e a tutte auguro di custodirlo, di alimentarlo e, se serve, di ritrovarlo.
Il passaggio dei successori di Pietro in terra agrigentina, che quest’anno stiamo commemorando, rappresenta per la nostra Chiesa un memoriale, che ci aiuta a Yissare in tre precise consegne quanto ho scritto in quanto messaggio, auspicando che diventi l’anima del nostro impegno ecclesiale per i prossimi anni.

Ripartire dalla pace secondo l’insegnamento dell’allora cardinale Angelo Roncalli, poi Giovanni XXIII, che 100 anni fa — l’11 maggio 1923 — visitò Agrigento e 40 anni dopo — l’11 aprile 1963 — consegnò al mondo, nella Pacem in terris, quello che molti hanno deYinito il suo testamento spirituale.

Consolidare la giustizia sulle orme di San Giovanni Paolo II, che durante la visita di 30 anni fa — l’8 e il 9 maggio 1993 — ha lanciato dalla nostra città quello che è passato alla storia come il “grido del cuore”.

Praticare l’accoglienza in risposta alle continue sollecitazioni di Papa Francesco, che 10 anni fa — l’8 luglio 2013 — a Lampedusa si è fatto pellegrino delle periferie dove vivono e muoiono gli ultimi della terra.
Maria, Donna del Cenacolo, ci insegni e ci contagi la piena docilità allo Spirito, perché non ci limitiamo a esserne “tempio” sempre più degno di contenerlo, ma ci lasciamo condurre fuori dai nostri “templi” per raggiungere le strade e le case dove il Signore ci chiede di fare arrivare la sua presenza.

 

Il sanitario, non un medico, aveva deciso di eseguire una visita ginecologica. Una scelta che ha molto turbato la madre che si trovava nel mezzo di soccorso insieme alla figlia.

Le due donne, appena sono arrivati all’ospedale Civico, hanno denunciato quanto successo e nel processo si sono costituite parti civili. La procura aveva chiesto una pena più severa. Il giudice, oltre alla condanna, ha disposto l’interdizione in perpetuo dallo svolgere lavori uguali o simili al suo vecchio incarico. Il fatto, però, è stato ritenuto di lieve entità, tanto da ottenere la sospensione condizionale della pena dietro il pagamento di una provvisionale per il risarcimento dei danni.

Dramma questa mattina all’interno di un supermercato di Sciacca nel quartiere Perriera. Un uomo è morto a causa di un improvviso malore mentre era alla cassa in compagnia della moglie e si stava apprestando a pagare il conto.

L’uomo, un sessantenne, si è improvvisamente accasciato davanti alla moglie, agli impiegati e agli altri clienti che non hanno potuto fare nulla per aiutarlo, se non chiamare i soccorsi. Sul posto è arrivata un’ambulanza del servizio 118 ma non c’era più nulla da fare. Per gli accertamenti di rito anche i carabinieri della locale stazione. La morte sarebbe stata provocata da un infarto fulminante.

Il corpo è stato restituito alla famiglia che potrà fissare la data dei funerali. Tante le persone che, appena ricevuta la notizia, si sono strette al dolore dei familiari.

La scuola fatta di emozioni provate e condivise.
La scuola che nasconde il senso della vita.
La scuola dove si impara, ma si impara anche ad imparare.
Perché è vero che esiste un metodo per imparare ad accogliere il sapere e la cultura che poi si tramuta in un metodo appassionato per imparare a vivere, a riconoscere le proprie attitudini, per accogliere i propri limiti senza sentirsi inadeguato o continuamente in competizione con gli altri, perché alla fine i limiti da superare sono sempre con se stessi.
Il metodo “Vecchioni”, del professor Roberto Vecchioni, che con i ragazzi del Liceo Beccaria passava 18 ore alle settimana insegnando loro greco, latino, italiano, storia e geografia (ma la geografia non la facevano quasi mai) … e non solo; insegnava loro a migliorarsi, a crederci, ad andare oltre, a confrontarsi, a capire e a non arrendersi mai. Al posto della geografia, analizzavano il pensiero letterario dei greci e dei latini.

Ieri sera Massimo Gramellini durante l’ultima puntata di “Le Parole” in onda tutti i sabati alle 20.30 e su Rai 3, ha fatto una sorpresa al suo compagno di viaggio, invitando i ragazzi della V A che con lui si sono diplomati nell’anno scolastico 1998-1999, causando in Vecchioni una profonda commozione.

Il “metodo Vecchioni” che prevedeva interrogazioni programmate e di gruppo, non certo facili (come hanno sottolineato i suoi ex alunni ormai adulti ed affermati).
E poi il premiare sempre l’impegno, la costanza. Non interessava se fossi andato benissimo, all’interrogazione. L’importante era non studiare all’ultimo minuto, preparandosi di fretta.

Interista sfegatato, il lunedì era una giornata che rifletteva i risultati delle partite.
lui, che tirava il gessetto – senza che nessuno mai se ne avesse a male – quando i suoi alunni dicevano corbellerie.
Il suo metodo prevedeva il togliere lo 0,5 per ogni errore commesso sui paradigmi, salvo poi non considerare mai quei voti che ne venivano fuori. E poi quel -2 dato per un compito in classe con i verbi tutti sbagliati. Ma non era mai cattiveria la sua, anzi li spronava a raggiungere degli obiettivi, studiando di più.
E così finche la sua alunna, che lui riteneva capace di grandi cose, non raggiunse il 7, continuò a metterle 4 anche se il compito non era da 4. Ma alla fine il “metodo Vecchioni” funzionò. I 4 sparirono; erano solo scritti a matita! rimase solo il 7.
In classe faceva i tornei di “mercante in fiera” e in palio c’era anche la cancellazione di un voto brutto, o una giustificazione. Era un modo per stimolare, giocando. Le risposte giuste, alle domande di cultura generale e non solo specifiche delle sue materie, facevano guadagnare carte.
Insieme ai suoi ragazzi, giocava anche la schedina di classe.
Anche con i genitori aveva un rapporto particolare. Stemperava la soggezione, chiedendo ai genitori di parlare dei loro figli, che per Vecchioni non erano numeri da incasellare o nomi in elenco, ma delle persone con peculiarità, caratteri diversi e sogni, come quelli che lui cantava nelle sue canzoni.
Il cantautore famoso che però sapeva fare il prof, appassionando con le sue spiegazioni.
Appassionando, perché alla fine è indurre ad appassionarsi, la chiave per rendere i giovani non solo colti ma anche consapevoli dell’importanza di ogni cosa che imparano e che servirà loro nel vivere, conservando la medesima passione e l’entusiasmo, quello che Vecchioni ha lasciato nei suoi alunni.
Il prof che entrava in classe e si sentiva felice.
Il “metodo Vecchioni” prevedeva di essere “in una sfera”, come fuori dal mondo, quando era con i suoi ragazzi, ma al contempo dentro al mondo, capendo il mondo da dentro la loro sfera, attraverso le domande, lo scherzo, il parlare, non solo attraverso le materie didattiche da programma.
Era il loro professore, non il loro amico. Autorità e confronto.
Il “metodo Vecchioni” prevedeva delle ricerche, spesso a tema libero; a lui serviva per comprendere in che  direzione andassero le loro idee.
Oggi alcuni dei suoi alunni sono diventati a loro volta docenti, ed hanno portato in questo difficile ma meraviglioso mestiere, tutta l’esperienza di vita vissuta con il professor Roberto Vecchioni.

La scuola è insieme. La prima cosa è accorgersi dell’altro, degli altri. Confrontare idee, pensieri, sorrisi e pianti, le problematiche dell’età. La prima cosa della scuola per me, non è la materia insegnata ma l’insieme. La cosa fondamentale della scuola è che deve prima insegnare a guardarti dentro, a capire come sei fatto, all’umanità che dai dentro e poi quello che c’è fuori, compreso il lavoro. Perché se ti scruti dentro, e non dimentichi la storia, hai sicuramente la capacità di superare tutto quello che c’è fuori compreso le difficoltà. Quel fare che c’è fuori, a scuola lo impari, anche se non è quella la tua strada. Avere cognizione di ciò che vive fuori da te. La storia non va mai lasciata indietro. Bisogna andare a scuola, per essere uomini 

Roberto Vecchioni 

 

 

 

Sta arrivando il “Sì”, da parte di diversi sindaci dell’agrigentino, alla manifestazione del prossimo 17 giugno organizzata dal Cartello Sociale: “una giornata di mobilitazione generale per fare chiarezza sulle linee di fondo a cui si ispirano decisioni che non vanno certamente nella direzione di assicurare standard efficienti del servizio sanitario”. Anche il primo cittadino di Agrigento, Franco Micciché, ha assicurato la presenza e invita i cittadini ad esserci. Il cartello ha rivolto un accorato invito ai primi cittadini della provincia di Agrigento “affinchè facciano sentire la loro voce e quella delle comunità che rappresentano partecipando alla giornata”. Si partirà da piazza Cavour, ad Agrigento, alle 10 per poi sfilare in corteo attraverso il viale della Vittoria fino a Porta di Ponte dove ascoltare alcune testimonianze e , infine, per consegnare al Prefetto un documento che illustra le ragioni dell’iniziativa.

“Formalizzo la mia adesione, il prossimo 17 giugno, alla grande manifestazione promossa dal Cartello sociale di Agrigento a difesa della Sanità pubblica e contro ogni progetto di Autonomia differenziata, che ha il solo scopo di impoverire ulteriormente questa terra. Sarò in piazza con, mi auguro, tanti miei concittadini perché arrivi chiaro un messaggio al Governo nazionale e a quello regionale: i siciliani non abbasseranno la testa”. A dichiararlo è il sindaco di Favara Antonio Palumbo, che aderirà alla marcia, apolitica e apartitica. A fargli eco è anche il primo cittadino di Grotte, Alfonso Provvidenza: “Oggi andiamo incontro a reparti sempre più vuoti e servizi sempre meno efficienti e l’Autonomia differenziata non potrà che aggravare la situazione in modo irreversibile”.

 

 

 

Chiede ripetutamente i soldi alla madre per comprare droga e sigarette e al rifiuto di quest’ultima l’ha picchiata e spingendola dentro una stanza l’ha chiusa a chiave. Una brutta storia di violenza e tossicodipendenza che arriva dalla provincia di Agrigento.

Protagonista è un ragazzo di sedici anni, con problemi di droga. La madre, esasperata per i continua maltrattamenti e minacce anche di morte, ha trovato il coraggio di andare dalla polizia e denunciarlo. Il ragazzo era fuggito da una comunità dove si trovava per un percorso di recupero.